Riuscirà la Commissione Europea a riscuotere dal torpore la politica italiana sulla perdurante emergenza corruzione? Il primo rapporto europeo, fresco di stampa, va giù pesante nel capitolo dedicato all’Italia. Più che bacchettate, sono vere e proprie randellate quelle che si abbattono a stigmatizzare inerzia e malafede della classe dirigente.
Cominciamo dai dati statistici, che – a differenza di certi politici – difficilmente mentono. Il rapporto della Commissione viene arricchito dai risultati di un sondaggio europeo, condotto nel corso del 2013. Nell’opinione pubblica italiana sembra regnare una sorta di schizofrenia. Alcuni campanelli d’allarme suonano assordanti: il 97% degli italiani ritiene che la corruzione sia un fenomeno dilagante – quasi il 20% in più della media europea. Per l’88 per cento degli italiani tangenti e raccomandazioni sono spesso il modo più facile per accedere ai servizi pubblici – oltre il 15% in più degli altri paesi europei. Eppure, sul piano personale, le rilevazioni sulle esperienze dirette sembrano smentire la presunta “anomalia italiana”: solo il 2% dei cittadini e il 4% delle imprese nel nostro paese si è visto chiedere una tangente nei 12 mesi precedenti, valori in linea con quelli “medi” europei.
E’ la dimostrazione che in Italia su questi temi si fa “tanto rumore per nulla”? Possibile, eppure alcuni segnali indirizzano verso un’altra possibile spiegazione. La sensibilità esacerbata degli italiani, più che dall’esperienza quotidiana – dove la micro-tangente ammantata da mancia, regalino o prestazione sessuale risulta talora così “naturale” da passare inavvertita – nasce forse dalla percezione che la corruzione si è “stratificata”, arroccandosi soprattutto in quei centri di spesa pubblica dove degrada in modo evidente e inaccettabile la qualità dei servizi erogati ai cittadini. Questo vale nel settore sanitario e assistenziale, ma se ne osservano chiari sintomi (corredati da illuminanti intercettazioni) nelle vicende della disastrosa ricostruzione post-terremoto in Abruzzo, nello scempio urbanistico e ambientale di territori un tempo accoglienti, nell’interminabile via-crucis a costi esponenziali di qualsiasi opera pubblica, nell’emergenza permanente dello smaltimento rifiuti – solo per citare alcuni tra i casi saliti di recente agli onori della cronaca.
A giudizio della Commissione europea le poche note positive investono soprattutto il versante della prevenzione, in virtù degli adempimenti imposti dalla legge 190 del 2012 a tutti gli enti pubblici. Eppure, nonostante la buona volontà di tanti amministratori, tutto ciò rischia di tradursi nell’ennesima inondazione cartacea di buoni propositi, con piani triennali destinati ad accumulare polvere sugli scaffali. Un altro progresso che l’Europa ci riconosce somiglia piuttosto, a ben guardare, a un segnale di debolezza. L’introduzione per legge di criteri di ineleggibilità e incompatibilità in caso di condanne per gravi reati – per quanto apprezzabile – rispecchia infatti il fallimento di quei meccanismi di controllo politico e sociale che in altri paesi d’Europa rendono semplicemente inconcepibile che pregiudicati per frode fiscale o corruzione vengano candidati dai loro partiti (tanto meno li guidino), od ottengano ampi consensi dagli elettori.
Ma è nella pars destruens che il rapporto della Commissione europea dà il meglio, con un j’accuse incalzante. La classe politica italiana negli ultimi anni si è colpevolmente auto-assolta, sottraendosi ai vincoli di codici etici o di strumenti per rendicontare il proprio operato. Persevera con leggine ad personam per salvaguardare imputati eccellenti. E’ latitante da due decenni per quanto concerne le misure più necessarie e urgenti: la riforma dei tempi di prescrizione dei processi – oggi garanzia di impunità per gli imputati; la mancata tutela di chi denuncia l’altrui corruzione; la trasparenza degli appalti pubblici; il rafforzamento del reato di falso in bilancio; il voto di scambio politico-mafioso e le infiltrazioni criminali nella sfera della politica e dell’amministrazione pubblica; la trasparenza delle situazioni patrimoniali, la corruzione nel settore privato. E poi un’ultima bastonata: la concentrazione anomala dei media e l’assenza di una seria regolazione che ponga fine a quel groviglio inestricabile di conflitti di interessi che – il dimissionario presidente Inps Mastrapasqua ne sa qualcosa – avvelenano la vita pubblica ad ogni livello. Già, il conflitto di interessi. Chissà se nel Pd qualcuno avrò il buon gusto di farsi carico di questa raccomandazione europea, adesso che la transizione a una presunta “terza repubblica” sembra sancita dalla “profonda sintonia” con il pregiudicato, proprietario di Mediaset e leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. Il cui nome, per inciso, nelle 16 pagine del rapporto non ricorre mai. E anche questa forse è una notizia.