Si è conclusa da pochi giorni la protesta dei migranti trattenuti nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria a Roma, dove il 25 gennaio tredici di loro si erano nuovamente cuciti la bocca per lamentare le condizioni e il protrarsi della loro permanenza nel centro, come già era accaduto a dicembre dello scorso anno.
Dopo un mese dalla prima protesta, la situazione sembra infatti essere rimasta esattamente identica, senza che le istituzioni siano riuscite a trovare una soluzione valida per queste persone. Una prigionia a tutti gli effetti e con durata ignota, riservata a individui che non hanno però commesso alcun reato e la cui sola colpa è stata quella di essere venuti in Europa pur non essendoci nati.
Un approccio alla gestione dei flussi migratori che sta dimostrando tutti i suoi limiti e che già da tempo viene definito controproducente per lo Stato accogliente e dannoso per le persone coinvolte. Un rapporto del Jrs-Europe, realizzato tramite il coinvolgimento di organizzazioni non governative di ventitré Paesi europei, ha infatti dimostrato gli effetti negativi creati da questa tipologia di detenzione, prendendo in esame anche il Cie di Ponte Galeria.
Dalla ricerca risulta infatti che la reclusione viene applicata spesso e in maniera indiscriminata in tutti gli stati membri dell’Unione Europea esaminati. Sui 685 richiedenti asilo o immigrati irregolari intervistati dall’indagine, una netta maggioranza ha evidenziato effetti negativi sulla propria salute psicofisica. Individui spesso rinchiusi in spazi sovraffollati, in cui non viene tenuto conto delle differenze di nazionalità, lingua o cultura. A ciò si somma la mancanza di informazioni chiare sulla propria condizione e sui tempi di permanenza nei centri, la perdita dei contatti col mondo esterno e la mancanza di libertà di movimento, che generano stress, depressione, insonnia e diminuzione dell’appetito.
Come evidenzia la stessa ricerca Devas, “una misura amministrativa, di per sé, non dovrebbe portare ripercussioni personali così negative. […] Le conseguenze della detenzione e i suoi effetti nocivi sulle singole persone sono sproporzionati rispetto alla loro condizione, sia perché questi soggetti non hanno commesso alcun reato, sia perché esistono delle alternative praticabili” soprattutto per coloro che attendono una risposta alla richiesta di asilo o alla domanda di permesso di soggiorno. Per esempio, l’emanazione di documenti provvisori con strutture ricettive aperte e controllate o con l’istituzione di un soggetto garante (tipo associazione) che si prenda la responsabilità di assicurare la partecipazione del migrante alle udienze e agli appuntamenti ufficiali previsti. E varie proposte di alternative alla detenzione sono state promosse anche dall’Unhcr, dalla Coalizione internazionale sulla detenzione e dal documento “Buone Pratiche per l’Europa di protezione”, redatto da quattro differenti commissioni.
Nei casi in cui la detenzione non possa essere evitata, il rapporto Devas suggerisce almeno di ridurla al minor tempo possibile, garantendo i diritti basilari di cui dovrebbe beneficiare un soggetto in quella condizione. Ciononostante, la nuova direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativa all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, lascia maggiore libertà agli Stati membri nello stabilire i casi di trattenimento, di fatto ampliando le ipotesi di detenzione amministrativa e di confinamento dei richiedenti asilo (art. 8-11).
Qual è dunque l’attuale situazione in Europa?
In Italia la detenzione nei Cie viene adottata anche per i rifugiati in cerca di protezione internazionale, che di norma dovrebbero risiedere nei Cara (Centri accoglienza per richiedenti asilo) che permettono un minimo di mobilità agli ospiti. Come spiega un’altra indagine del Jrs-Europe, “i Cie generalmente assomigliano strutture carcerarie: sono circondati da alte mura o reti metalliche e sono gestiti sotto la supervisione delle forze di sicurezza. I detenuti sono privati della loro libertà e possono ricevere visite solo dai familiari o dall’avvocato e spesso con difficoltà. In alcuni centri l’uso dei telefoni cellulari è limitato o vietato, l’esercizio del diritto alla difesa legale è quindi reso difficile e nessuno conosce la durata totale della detenzione. Le regole interne non sono definite dalla legge, i servizi di base e l’assistenza sanitaria sono carenti e vi è una pericolosa e caotica mescolanza di immigrati irregolari, criminali stranieri in attesa di espulsione e rifugiati in cerca di protezione internazionale in attesa di accoglimento della domanda”.
Come documentato dall’Appunto 21/2012 fornito dal Servizio biblioteca dell’ufficio legislazione straniera della Camera dei deputati, in Francia “il trasferimento in un centro di detenzione amministrativa non ha altro scopo se non quello di preparare la partenza del soggetto in situazione irregolare, impossibilitato a lasciare immediatamente il territorio francese dopo il provvedimento che ne sancisce l’allontanamento. […] La durata del trattenimento è strettamente limitata (attualmente a 45 giorni). Salvo eccezioni, il soggetto internato nel centro può uscirne in qualsiasi momento, non appena abbia accettato di essere allontanato dal Paese”.
In Germania “la detenzione finalizzata all’espulsione dello straniero cui è stato notificato l’ordine di espulsione è una misura prevista solo quando si ritiene che la persona interessata non partirà volontariamente e non risulti possibile adottare misure più attenuate. La messa in stato di arresto deve avere la durata più breve possibile. La carcerazione può protrarsi fino a sei settimane” salvo casi eccezionali che possono protrarla fino a sei mesi o un anno.
Nel Regno Unito si trovano “centri di trattenimento temporaneo per gli stranieri che, giunti senza autorizzazione sul territorio nazionale, debbano essere trattenuti in quanto destinatari di provvedimenti amministrativi di respingimento. Oppure, se richiedenti asilo, finché non sia riconosciuto il loro status”. La temporanea detenzione in attesa dell’esecuzione dell’ordine di espulsione e rimpatrio, se superiore a cinque giorni, deve avere luogo presso uno dei centri abilitati distribuiti sul territorio nazionale.
In Spagna “l’internamento nei centri costituisce una misura cautelare, per cui è necessaria la previa autorizzazione giudiziaria, destinata a quegli stranieri su cui incombe un procedimento sanzionatorio che può culminare nell’espulsione dal territorio nazionale. […] L’internamento è mantenuto per il tempo necessario e la sua durata massima è comunque fissata in 60 giorni”. Allo straniero è garantito il diritto di essere informato della sua situazione, di essere tutelato a livello fisico e psichico, di poter comunicare il suo ingresso nel centro a una persona designata in Spagna, all’ufficio consolare del suo Paese e all’avvocato, che deve essergli assegnato d’ufficio se necessario. Ha inoltre diritto a un interprete per la lingua e può entrare in contatto con organizzazioni che si occupano di protezione degli immigrati. “Gli stranieri ricevono al loro ingresso informazioni scritte su diritti e doveri, questioni di organizzazione generale, norme di funzionamento del centro, norme disciplinari e modalità con cui formulare richieste o reclami in un idioma a loro conosciuto”.