Nell’ultimo istante prima di (forse) morire, gli U2 pubblicano il quasi-singolo Invisible: brano che con qualche probabilità sarà presente nel prossimo disco del gruppo irlandese e svelato in pompa magna all’ultimo Superbowl con una nobile iniziativa che, grazie all’intercessione della Bank Of America, vedrà devoluti i ricavi della vendita al fondo globale Red contro la lotta all’Aids. Ed è già record, non tanto per i download registrati quanto per i ricavi: 3 milioni di dollari tutt’altro che scontati, visto che per le prime 24 ore il pezzo era reperibile “gratis” senza pagare pegno.
“È un modo per dire al mondo che gli U2 esistono in attesa del nuovo album” – ha dichiarato il leader Bono Vox – “Siamo sull’orlo dell’irrilevanza”. Che il musicista in questione ami giocare sul doppio binario dell’autocommiserazione è noto già da anni e ha da tempo suscitato qualche mal di pancia in seno allo stesso gruppo: che la sua sia una mossa studiata o meno a tavolino fa poca differenza, poiché la notizia vera è che Invisible è un bel pezzo e questo era tutt’altro che scontato già pensando alla recentissima Ordinary Love. Un retrogusto post-punk, a tratti new wave, che certo non farà gridare al miracolo e che anzi sembra attingere a piene mani dal repertorio di White Lies, Editors o Interpol (per restare nel contemporaneo) ma che denota comunque una sostanza che torna ad essere minimamente protagonista dopo una quindicina di anni in cui gli U2 si facevano riconoscere più per le loro buone intenzioni che altro.
E ultimamente sembravano non bastare neanche le solite ma nobilissime iniziative a riportare al centro dell’attenzione un gruppo che, per dirla tutta, non riesce più a far parlare di sé per la propria musica e che anzi, proprio per colpa del suo cantante, si è reso protagonista di qualche uscita non propriamente felice: come quando questi criticò, non molto tempo fa, le politiche fiscali irlandesi avendo però, da tempo, spostato il “patrimonio” del gruppo nelle Antille, a condizioni evidentemente più vantaggiose.
Appesantiti evidentemente anche dalla produzione di Brian Eno, che in molto meno tempo ha pressoché spappolato quel che rimaneva dei Colpdplay, i quattro non riescono ad uscire dal vortice dell’autoreferenzialità, sfornando di tanto in tanto qualche brano gradevole ma che ha il sapore tossico della plasticità: il (non) percorso degli U2 ricorda quello di tante altre band sopravvissute agli anni ’80 e ’90, fagocitate dalla propria (meritatissima) fama, che per definizione deve vederle sempre all’altezza delle aspettative di un bacino di sostenitori potenzialmente infinito. Alle volte, forse, vista l’inconsistenza delle sovrastrutture discografiche (nonché il non-senso delle stesse) al giorno d’oggi la cosa migliore sarebbe dare un valore differente sia al tempo che intercorre tra un disco e l’altro (e dire che gli U2, specie se confrontati con altri gruppi, non sono neanche tra i più prolifici), ma sopratutto avere il coraggio di ammettere le proprie mancanze anche a costo di mostrare il fianco: pensate a quanto sarebbe bello vedere Bono o The Edge andare in Tv ed ammettere una cosa del tipo “Non ne abbiamo più voglia, ma lo facciamo quasi più per inerzia che per altro: magari, per sbaglio, prima o poi ci scapperà addirittura un buon disco ma voi non fateci troppo la bocca”.
È quello che nella psicologia delle relazioni si potrebbe definire una “profezia autoavverante“, la capacità ovvero di rendersi attraenti agli occhi dell’altro e, di riflesso, venir percepiti come indispensabili: io, invece, degli ultimi U2 faccio volentieri a meno. Ascoltate Invisible, pagatela se possibile vista la giusta causa e poi correte a ripassare tutto il pregresso: che quello sì, ha mantenuto intatta la propria capacità di sorprendere in bellezza e semplicità.