Qualche giorno fa, da buon emigrante italico, ho portato i miei figli a vedere una partita di soccer a Melbourne: qui lo chiamano soccer perché utilizzano la parola football per un altro tipo di sport, simile al rugby, per il quale soprattutto a Melbourne la gente è davvero fanatica. La partita era Melbourne-Sidney, due città divise da una rivalità storica in tutti i campi, politico, economico e sociale: insomma, una specie di Roma-Milan dell’emisfero australe. Bene, la squadra di casa ha perso 5-0 e dalle tribune ho udito qualche flebile “buuuuuu!” come massima contestazione per i propri beniamini. Sono uscito dallo stadio pensando cosa sarebbe successo da noi in una situazione similare: e stavo per scrivere un post con alcune riflessioni su come viene vissuto lo sport da queste parti.
Poi il giorno dopo, con mia somma sorpresa, ho visto un titolone sul giornale in cui si lanciava l’allarme per l’escalation di violenza dei tifosi di soccer negli ultimi mesi. E si faceva riferimento proprio alla partita cui avevo assistito. Devo essermi perso qualcosa di grosso, ho pensato. Leggendo nei dettagli, gli episodi che avevano suscitato clamore erano principalmente due: 1) alcune persone avevano provato ad entrare senza biglietto cercando di forzare i controlli; 2) alcuni tifosi del Melbourne avevano bruciato qualcosa fuori dallo stadio appiccando un piccolo fuoco. So che vi state tenendo la pancia dal ridere, pensando a quanto succede sui campi di casa nostra. Ma queste due – per noi – inezie hanno provocato una stretta assai forte nella gestione dell’ordine pubblico negli stadi, con dichiarazioni minacciose da parte dei capi della polizia locale circa la tolleranza zero che verrà applicata d’ora in poi.
La questione della violenza durante gli eventi sportivi è spinosa e complessa: quello che è certo è che non è strettamente legata al tasso di violenza del paese, come alcuni esperti ci vogliono far credere quando dicono che gli scontri negli stadi non sono altro che lo specchio della nostra società. Basta pensare agli Stati Uniti, paese con sacche di violenza alquanto intensa ma che ha sempre preservato l’evento sportivo come occasione di festa, correttezza e fratellanza. Alimentando una cultura sportiva che nasce nelle scuole e che rende la competizione parte integrante della vita sociale della comunità.
Io credo vi sia una stretta correlazione con i messaggi trasmessi e gli esempi impersonificati dai protagonisti sul campo: nelle partite di soccer viste finora quello che ho notato è l’estrema correttezza dei giocatori. Niente sceneggiate, niente risse, niente colpi sporchi, anche sui giornali non si trovano le dichiarazioni roboanti di sfida cui siamo abituati dalle nostre parti. Il buon esempio di educazione e correttezza parte proprio da chi lo sport lo svolge in prima persona. E così dovrebbe essere. Invece – non ho mai capito per quale strana dinamica – noi siamo sempre stati attratti più dai cattivi maestri: se pensate bene, negli ultimi 10 anni le isterie collettive si sono sprecate per i Totti, i Cassano, i Balotelli, tutti campioni (coi piedi) alquanto mediocri di testa (e non parlo certo delle inzuccate in rete). I poveri Marchisio, Zanetti, Montolivo non fanno mai notizia, perché non hanno fidanzate scintillanti che twittano qualunque cosa passi loro per la testa, non vanno a fracassarsi in macchina, non sputano agli avversari e nemmeno mostrano loro il dito medio.
Certo, la testa calda ha sempre avuto un fascino speciale, non solo in campo sportivo. Ma se vogliamo lavorare sulle nuove generazioni con un programma di educazione allo sport serio e di lungo termine, a mio parere la prima cosa da fare è liberarci di questi esempi così deleteri. Condividendo tutti la responsabilità, i media in primis, di valorizzare le storie normali di giocatori che arrivano al top mantenendo il loro profilo di esseri umani civili ed educati e sminuendo, una volta per tutte, le imprese di quelle (per fortuna poche) mele marce che fanno presumere che vi sia un legame indissolubile tra talento e cattivi comportamenti. Perché vi assicuro che il lusso di potersi godere una partita di qualunque sport allo stadio, senza la preoccupazione di finire dentro qualche scontro o sassaiola della polizia è assolutamente impagabile. E dovuto, in una società matura che non si lascia influenzare, ma anzi biasima i protagonisti che veicolano messaggi contro la morale e l’etica dello sport.