Qui di seguito la lettera che mi ha scritto un mio amico dall’Inghilterra, su “troll” ed altre sciagure del web. Con qualche proposta dal sapore antico. Insomma, mal comune certamente. Mezzo gaudio, non saprei.
Mia cara,
ho la netta sensazione che stiamo tornando indietro. E non di qualche decennio, ma di almeno un secolo. Per una donna che voglia dire la sua, scrivere le sue opinioni e renderle pubbliche, il foro naturale, il primo grande luogo di discussione del pianeta, il web, è diventato una trappola. Un luogo di paura. Ti ricordo il caso di Mary Beard, rispettata professoressa di Storia romana di Cambridge, che fu presa di mira dopo avere parlato di immigrati -uno dei temi preferiti dei “troll” di mezzo mondo – sostenendo in un dibattito pomeridiano su un programma locale della Bbc che erano certamente esagerati i timori di uno degli ascoltatori che pronosticava un imminente collasso dei servizi sociali della sua cittadina di Boston (UK), causa il temuto arrivo di un’ondata di immigrati neo-comunitari bulgari e rumeni. I commenti che si riversarono sul web furono terribili, semplicemente irripetibili, tutti a sfondo sessuale. Ma Mary è un osso duro, e tenne testa ai “troll”, ripubblicando i loro commenti sul suo blog, ‘A don’s Life’ (“Vita di un professore”): avevano speculato, scrisse, sulla capacità della sua vagina, sulla lunghezza dei suoi peli pubici, invitando i lettori a zittirla, “ficcandoli il c… in bocca”. Rispose a tutte le critiche firmate, come spiegò, sempre sul blog ospitato dal prestigioso ‘Times literary supplement’, per il quale la Beard cura le recensioni di Storia romana.
La sorpresa, anche per la sua schiettezza, fu tanta. E in quel caso lo scandalo fu sufficiente, alla fine, per obbligare il sito che aveva ospitato i peggiori commenti a chiudere. Ma non per mettere la professoressa Beard al riparo delle minacce, che si sono susseguite, anche di recente, su Twitter. Mary Beard fa notare che attacchi simili, fatti per spaventare le donne e ridurle al silenzio, rischiano di funzionare. “Molte donne – ha scritto – si sarebbero comprensibilmente tirate indietro di fronte a un attacco simile, abbandonando il web”.
Boston, nel Regno Unito, è una tranquilla cittadina dello Lincolnshire, una contea prevalentemente agricola che si fa fatica ad immaginare popolata di persone rabbiose che odiano sia le donne che gli immigrati. Dopotutto da questi immigrati dipende buona parte della produzione agricola locale. Ma gli ascoltatori non erano certamente tutti locali, e la trasmissione aveva toccato un tema incandescente. Le paure, in particolare tra noi maschi del vecchio mondo, si sono sommate. Paura della libertà delle donne ormai sempre di più nostre temibili concorrenti sul lavoro e nella vita. E paura degli stranieri che continuano ad arrivare, cambiando le città in cui viviamo proprio nel momento in cui il lavoro manca davvero. Queste paure le riversiamo nel luogo ora deputato allo sfogo: il web. Qui possiamo toglierci la soddisfazione di dire l’indicibile, e trovare il conforto del branco, unendoci a tanti altri. Così tanti che possiamo anche mollare l’anonimato, e sfidare tutte e tutti, tramite post, in coro. Contando sulla quasi certezza dell’impunità.
Una come la Beard che felicemente sfoggia la sua chioma bianca, non solo testardamente femminista ma anche detentrice di una cattedra prestigiosa a Cambridge, il più antico dei santuari del dominio maschile sul sapere, va demolita, umiliata e zittita. Cazzo! E tutte le zoccole come lei. Questo è l’urlo che si leva in rete, appena una donna tira fuori la testa. Tanto più se si azzarda a parlare dei diritti dei Rom o dei migranti.
Vedo che anche da te in Italia le cose si sono messe male. Ho letto degli attacchi alla ministra Cécile Kyenge. Bravo medico, madre di famiglia e militante politico di lungo corso che ha il grave difetto, però, di essere non solo una donna ma anche nera. Agli attacchi frontali, sfacciatamente razzisti, portati avanti dai militanti del partito della Lega Nord, e altre frange neo o post-fasciste, si affianca quel terribile coro in rete. La ministra Kyenge ha la voce e lo stile pacato del buon medico di fronte a un paziente difficile, ma anche a lei devono tremare i polsi di fronte alla sfida che le hanno lanciato. Quegli attacchi, come ricorda la Beard, sono tutti rintracciabili su Google, e queste donne hanno figli che li possono leggere.
Poi ci si è messo il comico-capo-partito Grillo che credo non faccia più ridere da quando, con un post su Facebook contro la presidente della Camera Laura Boldrini, ha stuzzicato il branco di cui sopra. Ho capito, infatti, che non solo il branco degli uomini che odiano le donne è un fenomeno transnazionale, ma pare che si possa anche considerare un interessante bacino di potenziali elettori. Perdonami se te lo ricordo, ma voi in Italia avete un triste primato nel campo delle sperimentazioni politiche. Basti pensare a Berlusconi. Spero che su questa strategia Grillo si ravveda, perché porta su strade buie.
Questa è comunque una digressione. Tornando alle donne che vogliono, e devono potere farsi sentire, senza che ad ogni presa di posizione scomoda o decisa si levi uno sciame di attacchi pretestuosi, bisognerebbe organizzarsi. Mary Beard aveva suggerito di bombardare il sito che l’aveva presa di mira con le opere dei poeti dell’antica Roma. O si potrebbe fare come fanno certi uomini in rete: ricorrere al nickname, magari maschile. Un tempo anche grandi scrittrici che cercavano un riconoscimento pieno, hanno usato nomi maschili. Funzionava. Tu mi obietterai, giustamente, che le donne vogliono essere valutate ed apprezzate anche per quel specifico femminile che portano. E hai perfettamente ragione. E poi lo so, oggi l’immagine precede quasi sempre la parola. Era solo un idea da uomo.
Tuo,
George Eliot