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Sport e bambini: serve anche imparare a soffrire?

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Ieri per la prima volta dopo 8 anni ho nuotato. Ho nuotato da sola. In una corsia normale. Di una piscina normale. Dopo tanto tempo non ero più a sguazzare in una bagnarola con una specie di koala attaccato al collo. Sempre diverso, ma sempre delicato, da incoraggiare e sostenere, perché l’acqua può essere cattiva. E i bambini lo sanno.

Peró puó anche essere bellissima. Come stamattina per me. Pochi mesi prima della nascita del mio primo bambino ho corso la maratona. Con un tempo non esattamente da Guinness dei primati, ma arrivando comunque in fondo. Quasi viva. Oggi arrancavo dopo due vasche. Niente più fiato, resistenza. Muscolatura in panne. Articolazioni arrugginite. Che pena.

La maternità mi ha congelato per una decina d’anni, per restituirmi l’esatta percezione di quanto lo sport possa essere faticoso.

I bambini sguazzano nelle loro corsie, con la coda dell’occhio li seguo, li riconosco sott’acqua dalle gambe, dalle bracciate. È stata durissima non mollare, arrivare fino al punto in cui si sente anche il gusto. Ora qualche volta si lamentano un po’ prima di andare, ma senza grande convinzione. Quando usciamo, però, stanno bene. Sentono quel benessere buono del corpo che funziona. Che fa pulsare più forte il sangue. La vita. Parlo con una mamma della fatica, della tenacia, della perseveranza che ci vuole per spronarli. Ci incoraggiamo a vicenda: lo sport sarà un antidoto contro le cattive compagnie. Li aiuta a mollare le tensioni. Forgia il loro corpo che cresce. Li tiene impegnati, concentrati, ma insegna loro anche a mollare le tensioni. A stare con gli altri. A perdere.

“Sì, ma più di tutto insegna un po’ a soffrire”, conclude lei. Rimango sbigottita.
Mi butto su considerazioni sulle mezze stagioni, domandandomi se la signora sia per caso di fede nazista.

Poi saluto e vado via. Ci penso e ci ripenso. Insegnare a mitridatizzarsi, a soffrire un po’ per un traguardo…

Che abbia ragione lei?

Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 3 Febbraio 2014

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