Non ci sono solo gli edifici sventrati e i prefabbricati piegati su se stessi come castelli di carta. Il terremoto che il 20 e il 29 maggio del 2012 ha messo in ginocchio l’Emilia ha lasciato anche un’altra voragine. Un disastro che sfugge alle fotografie e al colpo d’occhio. Ma non ai numeri, che parlano di un intero territorio rimasto senza casa e senza stipendio: nell’area del cratere il sisma ha spazzato via 4.800 posti di lavoro, di cui 2.800 solo nella provincia modenese, la più colpita. E ha contribuito a far schizzare la quota dei disoccupati in Emilia Romagna a 175 mila, 33 mila in più rispetto all’anno precedente. In altre parole, il dato più alto degli ultimi vent’anni secondo l’Istat. Così, in Emilia, al dramma delle macerie si è andato a sommare quello della povertà. E se è vero che sono passati 20 mesi dalla prima scossa, parlare di ripresa è difficile. Anche perché l’esondazione del Secchia ora mette a rischio altri 5 mila dipendenti, ossia i lavoratori di quelle 2 mila aziende che nel giro di sei ore si sono ritrovate con lo stabilimento allagato e i macchinari da buttare.
A snocciolare i dati sono soprattutto i sindacati, che da quando il terremoto ha squassato i comuni di quell’area compresa tra Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Bologna e Mantova, non riescono più a tenere il conto dei cassintegrati. Secondo la Cisl, nei primi tre mesi del 2013, i disoccupati della Bassa modenese sono aumentati del 17,5%, contro una percentuale provinciale ferma al 3,9%. Ancora più grigio il quadro dipinto dalla Cgil: “I fenomeni sismici hanno inciso in maniera devastante in un territorio già fortemente colpito dalla crisi economica” spiega Tania Scacchetti, segretario della Cgil di Modena . “E se si è riuscito a evitare che molte aziende delocalizzassero, è anche vero che tanti hanno chiuso, riversando in un mercato già saturo migliaia di disoccupati che ora è quasi impossibile ricollocare”. Come la Guess, che ha sbarrato le porte dello stabilimento di Crevalcore per andare in Svizzera, lasciandosi alle spalle una città devastata dal terremoto e 80 lavoratori, quasi tutte donne, senza reddito. Che si parli di aziende meccaniche o alimentari, il copione è sempre lo stesso: per riuscire a fare ripartire la produzione e rimettere in sesto lo stabilimento è stata sacrificata la manodopera.
“Le aziende che soffrono di più sono quelle medio-piccole, ossia la spina dorsale di questa zona” spiega Giampaolo Palazzi, proprietario della Bgp di San Felice sul Panaro, ditta specializzata nella tornitura e nella fresatura dei metalli. La mattina dopo il terremoto del 20 maggio Palazzi si è svegliato con oltre 1 milione e 200 mila euro di danni. Con la terra che ancora ballava sotto i piedi ha spostato tutti i macchinari in una tensostruttura. Solo così è riuscito a salvare la produzione e la busta paga dei suoi 20 dipendenti. “Lavorando giorno e notte siamo ripartiti dopo 15 giorni”. Una storia che oggi appare quasi come un miracolo nel mezzo di un mosaico fatto di imprese stremate e di un esercito di famiglie costrette a bussare alla porta dei centri per l’impiego. “A un anno e mezzo dal sisma si può dire che per molti imprenditori la situazione è rimasta immutata. Il problema principale sono i soldi. Io, ad esempio, sono stato fortunato perché la banca ha anticipato 380 mila euro per ripartire. Ma se fino ad alcuni mesi fa pagavo un tasso d’interesse agevolato all’1,5%, oggi verso oltre il 4,5%. Questo significa che ogni mese butto via migliaia di euro. Non tutti ce la fanno. E la situazione è ancora più drammatica se si pensa che dopo il terremoto molte aziende avevano delocalizzato nei dintorni di Bomporto e Soliera. Le stesse zone che ora si trovano sommerse dall’acqua”.
L’area invasa dal Secchia esondato ospita infatti moltissime aziende che provengono dal ‘cratere’ terremotato. Abl, Biofer, Eurosets, Unifil, Nuova Cdp. Solo per citarne alcune. Imprese che, in molti casi, non hanno ancora terminato la procedura necessaria a ottenere i rimborsi stanziati dallo Stato per la ricostruzione post sisma. E che da domani dovranno ripassare dal via, per cercare di rialzarsi dopo che il fiume ha allagato stabilimenti e capannoni. “Vorremmo dimenticare quanti disagi abbiamo subito durante il sisma, sia per le ripercussioni psicologiche, sia per quei danni, che tuttora sono in attesa di risarcimento” racconta Alessandro Lapini Sacchetti, presidente dell’azienda farmaceutica Biofer Spa di Medolla, uno dei comuni più colpiti dal terremoto. “La nostra tenacità però non ha potuto nulla contro il destino avverso. Da poco ci eravamo ripresi e ora siamo di nuovo in difficoltà, e i lavoratori di nuovo a rischio”. In tutto, a dicembre, sono state 606 le aziende che hanno fatto domanda d’accesso al contributo stanziato per le attività produttive: solo una parte delle migliaia danneggiate dal terremoto.
di Annalisa Dall’Oca e Giulia Zaccariello da il Fatto Quotidiano di lunedì 3 febbraio 2014