C’è un mondo invisibile, sommerso dalle macerie e dall’acqua. Gente dalla pelle ruvida, padana, abituata alla nebbia, dignitosa per una sorta di contratto col Dna. Sono gli emiliani che vivono nelle zone che due anni fa un terremoto seriale fece fuori le loro case e le loro vite. Ci sono centri storici, come Mirandola, diventati fantasma: la messa in sicurezza delle chiese e delle abitazioni, ma nessun accenno a quella che si chiama ricostruzione. Molte promesse e pochi soldi dallo Stato. Tanta solidarietà, a fiumi. Ma oltre a quella è arrivata anche l’alluvione nei giorni scorsi, a complicare ulteriormente le cose. Macerie e acqua messe insieme. Ma sempre per quella sorta di contratto i giornali hanno evitato il clamore, e loro si sono rimboccati le maniche. Senza fiatare.
Gli accampamenti definitivi
Stupisce che ci siano persone ancora nei container, 2500 per la precisione. E nonostante il gergo burocratico li chiami “map”, moduli abitativi provvisori, sono contenitori. Fatti di metallo e illuminati da luci al neon. Scatole di lamiera che macinano corrente elettriche, completamente a carico di chi li abita: “Le bollette della luce oscillano tra i 1200 e i 1300 euro, per qualcuno di noi arrivano fino a 2500 euro. Se paghiamo? Certo, prima o poi arrivano”, racconta Antonella, un figlio di tre mesi e mezzo che vive con lei e con il marito in una di quelle scatole. “Questa è la prima casa di Francesco. E quella che arriva la prima estate. E’ nato a ottobre. Viviamo col condizionatore, aria calda l’inverno, fredda da maggio a settembre. Speriamo di poter scappare al più presto”. Pagano una scelta scellerata, che la Regione non nega: “La scelta dei moduli è dovuta al fatto che la si è sempre pensata come una soluzione temporanea, che doveva essere il più a breve termine possibile – ha avuto modo di dire al Fatto Quotidiano Gabriele Ferrari, consigliere regionale del Pd – quindi abbiamo cercato di spendere il meno possibile. Comprare delle casette con la massima efficienza in termini di requisiti sarebbe stato molto costoso, dunque abbiamo optato per una soluzione che fosse al contempo ragionevolmente conveniente e efficiente.
La permanenza nei map è un momento transitorio, ma se si fosse speso troppo si sarebbe rischiato di renderlo definitivo”. Concetto ribadito dall’assessore Gian Carlo Muzzarelli: “Non ha senso investire su case che verranno smantellate”. Non fa una piega il ragionamento. Solo che sono passati quasi due anni, e non sappiamo per quanto ancora il provvisorio sia definitivo. E quelle sono scatole, non possono essere chiamate abitazioni e il criterio di isolamento termico, visto che sono di lamiera, non esiste. Proviamo a ricapitolare: è il 20 maggio del 2012 quando la terra inizia a tremare tra le province di Modena, Ferrara e Reggio. Epicentro localizzato a Finale Emilia, pochi minuti dopo le quattro del mattino. Ci sono le prime vittime. Nove e undici giorni dopo l’epicentro si sposta tra Medolla e Mirandola. 25 morti, decine di migliaia gli sfollati. Un patrimonio artistico e culturale che si è sgretolato. 13 miliardi di danni, la stima. Eppure nella terra dell’efficienza poco ancora è stato fatto. Basta arrivare a Medolla. Gli uffici comunali sono esattamente dove erano stati collocati nel bel mezzo dell’emergenza. L’ufficio del sindaco è al contenitore numero 1, al contenitore 14 c’è l’ufficio anagrafe, al 21 la segreteria. Un comune trasferito in un accampamento. E funziona. L’attività non si è mai fermata, ma di sede definitiva non c’è l’ombra. La vecchia scuola che ospitava gli uffici è inagibile e resta tale. I soldi girano, ma su pezzi di carta. Chi ha perso l’attività l’ha riaperta indebitandosi ancora con le banche. Sempre in costruzioni prefabbricate. C’è stata una fuga di persone e le case che sono rimaste in piedi sono in vendita. A gennaio, inoltre, le famiglie terremotate hanno ripreso a pagare i mutui sulle abitazioni, anche se distrutte, perché la sospensione è scaduta e non c’era più la volontà né le risorse per poter prorogare la sospensione. Questa la situazione sul fronte terremoto. Come se non bastasse è arrivata l’alluvione, la zona più colpita quella di Bomporto, pochi chilometri dall’epicentro del terremoto. E a Bomporto, il caso ha voluto, che avessero traslocato molte aziende del polo biomedicale, l’industria più sana di tutta la zona. Apparecchi sofisticati, una concorrenza dall’estero spietata. L’amministratore delegato della Eurosets, per fare un esempio, ha confessato che “neppure un esercito di tecnici consentirebbe di compilare la documentazione per ottenere gli aiuti”.
Sommersi due volte e lasciati soli
E ora ha altri 2 milioni di euro di danni a cui fare fronte, tra merci da buttare via e macchine sommerse da 1 metro d’acqua. E tutto questo era quello che, nei giorni successivi al sisma, Vasco Errani, governatore dell’Emilia Romagna e Commissario straordinario per il terremoto, aveva promesso che non si sarebbe verificato: “Poca burocrazia e rapidità nell’esecuzione”. Due dati smentiti dal tempo: di burocrazio sono sommersi, l’accesso ai contributi è quasi impossibile e con tempi lunghissimi, la ricostruzione va a passo di lumaca. L’emergenza è stata gestita in manioera esemplare, tutto il resto – in molti casi colpevole più il governo centrale che non la Regione – tiene in piedi un bilancio disastroso, lontano come un orizzonte dall’essere chiuso. Sul fronte dell’alluvione i numeri sono sempre da bollettino d’a m e rgenza: una persona dispersa, mille persone rimaste senza casa, 2500 ettari di terra distrutta, soprattutto quella del Lambrusco, altro prodotto da esportazione dell’economia emiliana. “Siamo di fronte a un disastro annunciato”, ha detto il presidente di Confagricoltura di Modena, Eugenia Bergamaschi, azienda a poche decine di metri da dove il fiume Secchia ha rotto gli argini. “Da anni denunciamo una forte preoccupazione sulla gestione degli argini e del letto del fiume, ma i nostri proclami non sono stati ascoltati e ora ci troviamo ad affrontare una situazione drammatica. Così oggi ci troviamo ad affrontare una nuova emergenza, a 20 mesi dal terremoto, con nuovi problemi e danni economici ingenti, in un contesto già complicato”. Il danno, la beffa. Un destino che pare si sia accanito con una delle zone che da sola produce, o produceva, il due per cento del prodotto interno lordo italiano. Il tutto in un vuoto da parte dello Stato che sembra non essere mai colmato. Era presidente del consiglio Mario Monti, quando la terrà tremò. Venne anche contestato l’allora premier in visita nelle zone distrutte.
La terra che correva a 200 all’ora
Questa volta il primo ministro a tempo, come a tempo lo era Monti, si chiama Enrico Letta. Lui neanche ha fatto visita. Perché mediaticamente l’Emilia non funziona più. O forse non ha mai funzionato. Per via di quel carattere, di quella scorza e di quell’orgoglio della terra dei motori che una volta correva a trecento all’ora e che oggi invece ha un motore mezzo fuso. Dire che è una terra ferita è scontato. Che l’emergenza probabilmente finirà tra anni è molto realistico. Lo sa bene chi vive dentro ai container, quelli che hanno perso il lavoro con il terremoto e le speranze con l’alluvione. “I giovani sono fuggiti via, il domani non sappiamo. Viviamo in una continua emergenza, delle rassicurazioni non sappiamo che farcene. Non sono concrete, sono solo parole per alleviare il nostro dolore in ricordo di una vita che fu e che sappiamo bene che non sarà più”.
da il Fatto Quotidiano di lunedì 3 febbraio 2014