Era l’8 novembre dello scorso anno quando Piero Ricca, venendo a conoscenza del mio oscuro passato professionale, mi fece la fatidica domanda: “Ma che è ‘sta storia del capitale della Banca d’Italia? Non è che me la spiegheresti?”. Piero, da buon segugio, aveva intuito che sotto c’era una bella “sola”: udite le spiegazioni, ebbe la conferma dei suoi sospetti e mi chiese subito di farci un video da mandare sul blog di Beppe Grillo.
Da allora non mi sono più occupato del tema (se si esclude il piccolo aiuto che, assieme ai ragazzi di Economia 5 Stelle, ho dato a un gruppo di senatori nei giorni della presentazione del decreto): d’altra parte ho continuato a nutrire la speranza che comunque i cittadini italiani decidessero di scuotersi e fare qualcosa per impedire che il sonno della ragione generasse un altro mostro.
Devo dire che quest’ultima speranza non è stata affatto vana e anzi gli eventi delle ultime due settimane hanno dimostrato che non tutti sono proni innanzi alle balle somministrate per cloroformizzare l’opinione pubblica; che – e credo che questa sia la vera lezione – se non si abbassa la testa si riesce quanto meno a dimostrare l’assurda determinazione di un assetto di potere decrepito, il quale, davanti alla necessità di portare a casa i soldi, abbandona il sonnolento pantano delle larghe intese per mostrarsi ferocemente decisionista e pronto a tutto, anche a far strame della democrazia parlamentare.
Dunque missione compiuta? Ancora no.
Ancora no perché negli ultimi giorni mi è capitato più volte di osservare diversi commentatori intenti nel poco utile passatempo di ristabilire il galateo parlamentare e non, come avrei voluto, nel giudicare duramente una delle pagine più miseramente goffe e disoneste dell’era dei governi pseudo-tecnici (che, prendete nota, è cominciata nel 1992 e non nel 2011).
E dunque ho sentito il bisogno di tornare sul tema al solo scopo di smentire alcune delle idiozie più diffuse.
1) La Banca d’Italia non è mai stata statale, ma proprietà degli istituti bancari e assicurativi.
Nel 1936, a seguito della Grande Depressione, il grosso del sistema bancario era stato nazionalizzato attraverso l’IRI; quell’anno il Governo procedette all’esproprio degli azionisti della Banca d’Italia – privi dei mezzi necessari a sostenerne il funzionamento – conferendo le quote alle banche già nazionalizzate e ad altri soggetti pubblici. Quindi, per quasi 60 anni e fino al 1992, la Banca d’Italia è stata pubblica.
2) A seguito delle privatizzazioni degli anni ’90, gli azionisti della Banca d’Italia sono privati, per cui per nazionalizzare la banca centrale bisognerebbe procedere a un esproprio pagando un notevole indennizzo che non possiamo permetterci.
Privatizzazioni, appunto. Con il termine privatizzazione si indica, solitamente, la vendita sul mercato di beni di proprietà pubblica. Nel ’92 l’impagabile Giuliano Amato diede il meglio di sé proprio con le banche: creò le invereconde Fondazioni Bancarie – naturalmente controllate dai partiti – alle quali fu “regalato” (il termine non è casuale né iperbolico) il pacchetto di controllo delle principali banche pubbliche e, con esso, le quote detenute nella Banca d’Italia. Certo il buon Amato avrebbe potuto sottrarre al cadeau proprio il capitale della banca centrale, ma non lo fece e per di più lo computò al valore nominale. Capito? Quando nel ’92 lo Stato le regalava, le preziosissime quote valevano solo 156.000 euro: ora che qualche fascista prova a ipotizzarne la nazionalizzazione dovremmo tirare fuori i fanta-miliardi!
3) La rivalutazione non comporta uscite di danaro pubblico, ma è una mera operazione contabile.
Si tratta di un’operazione contabile, ma con conseguenze assai concrete: il dividendo distribuibile passa da 50-70 mln annui (ciò che fino ad oggi per prassi si distribuiva) a 450 mln, utilizzando sostanze che altrimenti sarebbero rimaste alla Banca d’Italia o andate al Tesoro: questa è o non è un “uscita di danaro pubblico”? E, ancora, se quelle quote che dovrebbero essere patrimonio dello Stato (e, come spiegavo prima, solo per un inopportuno regalo non lo sono) potranno essere vendute da altri ad un prezzo stimato appunto in 7,5 miliardi di Euro, non si determina un rilevantissimo danno per l’Erario almeno in termini di mancato guadagno?
4) I 7,5 miliardi derivanti dalla rivalutazione rafforzano il patrimonio del sistema bancario e attenuano il credit-crunch.
Secondo le statistiche della Banca d’Italia le sofferenze del sistema ammontano a circa 140 miliardi di Euro. Che dite, con i 7,5 miliardi della rivalutazione supereremo l’ostacolo? E poi perché fare una manovra che favorisce in maniera indiretta e opaca le sole banche presenti nel capitale della Banca d’Italia e non tutto il sistema?
5) La rivalutazione non tocca le riserve auree né il reddito da signoraggio.
La rivalutazione giungendo a 7,5 miliardi è ben lontana dal valore reale del patrimonio della Banca d’Italia. Mi faccio e vi faccio però alcune domande: questi 7,5 miliardi sono o non sono anch’essi il frutto di decenni di monopolio dell’emissione e dei cambi? Se così è, a che titolo dei privati se ne avvantaggiano in danno di tutti gli italiani? E, ancora, se passa il concetto delirante che la Banca d’Italia è un soggetto di emanazione privata, cosa impedirà ai suoi soci, un domani, di chiedere che si proceda ad una rivalutazione da altri 7,5, 20, o 100 miliardi per appropriarsi anche di ciò che residua? E cosa gli impedirà di appellarsi, in caso di rifiuto, alla Corte di Giustizia dell’Unione?
6) Potranno detenere azioni di Banca d’Italia, oltre a banche e assicurazioni, anche le Fondazioni ex bancarie e i fondi pensione, con la limitazione che deve trattarsi di società aventi sede legale in Italia.
Sapranno i tecnici che una norma del genere può essere oggetto di procedura d’infrazione perché discriminatoria nei confronti dei cittadini dell’Unione Europea? Sapranno i tecnici che Deutsche Bank Italia, BNL-BNP Paribas e UBS Italia sono – tanto per fare solo qualche esempio – società a tutti gli effetti italiane? Insomma delle due l’una: o la norma a tutela dell’ “italianità” non funziona (perché non esclude le società italiane detenute da stranieri, anche extracomunitari) o se funziona è incompatibile con il diritto comunitario.
7) Se si trattasse di una manovra sbagliata la Banca d’Italia si opporrebbe.
Questa è una domanda che mi sono ripetuto spesso: perché la Banca d’Italia non prende posizione contro questo obbrobrio? Francamente non so darmi una risposta. Mi viene solo il dubbio che, in tempi di tagli alla spesa pubblica e polemiche contro la casta, far parte della Pubblica Amministrazione non sia più così conveniente per chi ha molto da perdere.