Sette anni sono passati dall’ultimo lavoro in studio di Suzanne Vega, ed il suo nuovo “Tales from the Realm of the Queen of Pentacles” ne sancisce il ritorno. Nel lasso di tempo intercorso, Suzanne Vega ha tentato di risistemare, seguendo un “ordine emotivo”, buona parte della sua discografia; da qui lo sviluppo della serie “Close-Up”, raccolta divisa in quattro album ognuno dei quali dedicato ad una precisa tematica (“Love Songs”, “People and Places”, States Of Being” e “Songs Of Family”).
Probabilmente anche grazie a questo tentativo dell’artista di separare, di tracciare dei confini, si è sviluppata l’esigenza di dare vita ad un album caratterizzato da fusioni e connessioni: “Tales from the Realm of the Queen of Pentacles” è un viaggio nel mondo terreno con continui rimandi e collegamenti alla sfera della spiritualità. La chiave usata – come suggerito dal titolo dell’album – è quella dei tarocchi, perfetto anello di congiunzione tra il mondo sensibile e quello dell’ignoto; e gli elementi ci sono tutti: morte, fede, amore, vita.
Partendo quasi sempre da storie di vita vissuta, Suzanne inizia a dipingere storie e personaggi che lasciano pieno spazio all’interpretazione; schizzi che spingono l’ascoltatore a tessere o completare una storia intorno ad essi, come nel caso della brutta giornata vissuta dall’amico di Suzanne e raccontata in “Portrait Of The Knight Of Wands”.
Per questo nuovo lavoro viene riunita una squadra di prim’ordine, dalla produzione affidata a Gerry Leonard (David Bowie), al mixing di Kevin Killen il quale, tra le diverse collaborazioni annovera quella con gli U2 di “Unforgettable Fire” e “So” di Peter Gabriel. Il sound di Gabriel – musicista molto caro a Suzanne Vega – sembra aleggiare almeno su una canzone dell’album, quella fantastica “Don’t Uncork What You Can’t Contain”, che oltre a contenere un campionamento di “Candy Shop” dei 50 Cent, presenta percussioni e chitarra dall’intensità e ritmica molto simili alla versione dal vivo di “Secret World” di Gabriel.
Il disco è estremamente curato e pulito nei suoni, i quali non risultano mai fuori posto, con strumenti che si inseriscono solo dove necessario, evitando così di trasformare un album dai momenti sonori variegati, in un’accozzaglia indefinita e disordinata tipica di chi vuole aggiungere elementi senza prima ponderarne l’utilità. I momenti più belli si hanno dove si lascia un buon margine di espressione alle parti strumentali, come nel caso della già citata “Portrait Of The Knight Of Wands” – senza dubbio il brano più affascinante dell’album – che sviluppa un’apertura finale con forti richiami ai crescendo dei Porcupine Tree.
I testi vengono incorniciati con tessiture sonore ben precise ed eterogenee, trasformando ogni brano in una piccola unità indipendente. Dall’arpeggio dell’iniziale “Crack In The Wall”, al riff accattivante dell’autoritratto “I Never Wear White”, passando per la cavalcata di “Fools Complaint”, fino a sfumare nella conclusiva “Horizons (There Is A Road)”, si ha un continuo succedersi di cambiamenti sonori. Il brano che chiude il disco, “Horizons (There Is A Road)” incarna più di ogni altro il tentativo di fondere la realtà tangibile con la dimensione spirituale, ponendo al centro l’amore come chiave interpretativa di tutto ciò che è oltre l’orizzonte raggiungibile dallo sguardo umano.