Dopo la pubblicazione di un nostro post e una presentazione sulla questione della trasparenza amministrativa, diversi lettori ci hanno mandato domande e commenti che meritano un’ulteriore riflessione sul tema. Li abbiamo messi assieme e abbiamo risposto in questo nuovo post.
Per garantire la trasparenza dell’operato delle pubbliche amministrazioni i controlli esterni a carattere democratico sono necessari quanto i controlli interni di tipo burocratico?
Nell’ottica di incoraggiare un contrasto di tipo preventivo alla corruzione pubblica tramite la promozione della trasparenza amministrativa il ruolo del controllo civico assume un rilievo fondamentale. Del resto trasparenza, partecipazione e collaborazione sono i capisaldi dell’Open government. Quindi, se da un lato la Pubblica Amministrazione ha il dovere di assumere un ruolo proattivo di divulgazione del suo patrimonio informativo, consentendo la verificabilità del proprio operato e ponendo le basi per una politica inclusiva, dall’altro ogni cittadino, in virtù del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, ha il diritto/dovere di informarsi e interrogare chi lo amministra, pretendendone la rendicontazione delle attività.
Questo compito civico è oggi facilitato dalle opportunità offerte dalle tecnologie digitali del web 2.0, sebbene nel nostro Paese l’accessibilità dei cittadini alla vita politico-amministrativa sia ostacolata da un analfabetismo digitale ancora diffuso. La trasparenza è ormai considerata un diritto di cittadinanza e uno strumento di empowerment della società civile ma, come tutti i diritti, deve essere esercitato altrimenti perde di valore e significato. Senza una cittadinanza partecipe che accede alle informazioni pubbliche disponibili, elaborandole e riutilizzandole, la stessa filosofia dell’open data non ha senso di esistere.
Quindi è importante vincere la resistenza culturale che non solo la Pubblica Amministrazione, ma anche gli stessi cittadini oppongono al rinnovamento.
Quando si parla di “resistenza culturale” alla trasparenza non si fa riferimento soltanto agli ostacoli di ordine culturale che la P.A. pone al cambiamento, legata com’è a quel culto della segretezza che la commissione Nigro nel 1985 aveva tentato invano di annientare, ma anche a quell’atavico atteggiamento di distacco e diffidenza che domina nella società civile del nostro paese. Esistono, ad esempio, strumenti partecipativi a disposizione dei cittadini con la funzione di incoraggiare il controllo civico e la collaborazione diretta nella vita amministrativa del Comune. Per citarne solo alcuni: le Giornate della trasparenza, le Carte dei servizi pubblici, il Bilancio partecipativo. Strumenti che risultano, tuttavia, sconosciuti ai più e sottoutilizzati.
Se nella battaglia per la trasparenza il ruolo della P.A. è dunque sancito dalla Costituzione in primi e dalle disposizioni di legge poi, sul ruolo del cittadino nessuna legge può intervenire: è una pura questione di senso civico.
In Italia l’attuale disciplina sulla trasparenza non è adeguata agli standard europei e non è in grado di assicurare sanzioni adeguate nei confronti dei funzionari pubblici inadempienti.
Come ben sappiamo, gli sforzi compiuti dal Legislatore nel campo della trasparenza non sono certo encomiabili. A tale proposito possiamo parlare di resistenza normativa, oltre che culturale. Non dimentichiamo che la legge sulla trasparenza (l.n. 241/1990) non consente l’accesso totale alle informazioni pubbliche allo scopo di controllare l’operato della P.A., negando quel right to know del mondo anglosassone, il diritto al controllo sociale e democratico, il cui non riconoscimento incide gravemente sulla perdita di credibilità di cui soffrono le nostre istituzioni.
Nel Foia (Freedom of Information Act) di tradizione anglosassone, invece, i due elementi della pubblicità e dell’accesso totale sono strettamente correlati. In Italia il nostro governo, oltre a prevedere un diritto di accesso limitato, si fa promotore di una concezione burocratica e formale della trasparenza, basata quasi esclusivamente sul principio di pubblicità dei dati e su un ulteriore carico di adempimenti burocratici (ad oggi sono 270 gli attuali obblighi di pubblicazione attualmente previsti per le PP.AA.).
Insomma, i siti web istituzionali come vetrine, la pubblicità come fine e non come mezzo della trasparenza. È la stessa Autorità nazionale anticorruzione (Anac, ex Civit) a parlare, in un suo recente rapporto, di “pubbliche amministrazioni […] che spesso sembrano privilegiare il rispetto formale di tempi e procedure piuttosto che la consapevole attuazione di una efficace politica di prevenzione della corruzione”.
La disciplina normativa sulla trasparenza è poi carente di un efficace ed incisivo apparato sanzionatorio. Se l’Autorità anticorruzione fosse messa in grado di operare in condizioni di indipendenza e autonomia, con adeguate risorse e autorevolezza, e le sanzioni pecuniarie, disciplinari e per responsabilità dirigenziale previste dalla legge anticorruzione n.190/2012 fossero applicate, i richiami alle amministrazioni inadempienti sarebbero, probabilmente, all’ordine del giorno.
È davvero necessario che le PP.AA. investano risorse economiche per fare trasparenza?
La clausola dell’invarianza finanziaria apposta all’ultimo provvedimento sulla trasparenza (d. lgs. n. 33/2013) rende certamente ancor più difficoltoso il percorso verso l’apertura totale della P.A.
I processi di digitalizzazione e pubblicazione in formato aperto degli innumerevoli dati delle PP.AA., seppure in corso ormai da qualche anno, comportano inevitabilmente oneri e costi ulteriori a carico delle amministrazioni. Parliamo di costi in termini di tempo, di risorse umane competenti ed adeguatamente formate, di forze lavorative sottratte ad altri compiti, di potenziamento tecnologico.
La trasparenza richiede che i dati pubblicati siano anche di qualità. Ciò comporta oneri di individuazione, raccolta, rilascio, organizzazione, trattamento e gestione dei dati (quest’ultimi spesso dispersi in una molteplicità di uffici e modalità di archiviazione diversi) che soprattutto gli enti locali, in un periodo di crisi e di tagli alla spesa pubblica, spesso non possiedono.
D’altra parte, sappiamo che gli sprechi della P.A. sono consistenti e innumerevoli: in relazione a ciò la clausola dell’invarianza finanziaria potrebbe, in teoria, fornire un impulso a razionalizzare e impiegare strategicamente le risorse umane e finanziarie già esistenti.
Nello stesso tempo è doveroso accennare alla scarsa capacità delle amministrazioni di cogliere i benefici e le ricadute economiche positive derivanti dalla liberalizzazione e dal riutilizzo a scopo commerciale delle informazioni pubbliche. Questi dati rappresentano una grande opportunità economica: nel 2010 è stato stimato in 32 miliardi il loro valore economico nell’Europa a 27 paesi. Questo significa che i costi che le PP.AA. oggi dovranno sostenere per osservare gli obblighi sulla trasparenza potrebbero essere recuperati e ammortizzati.
di Cinzia Roma