Spesso sentiamo i nostri governanti lamentarsi – anche a ragione – sulla rigidità dei vincoli europei (il famoso 3% nel rapporto deficit – Pil) che impediscono manovre economiche realmente antirecessive.
Ci sono invece due possibili riforme, due battaglie culturali che l’Europa ci sollecita e che, se attuate, avrebbero positivi effetti sulla nostra economia: efficaci normative contro l’evasione fiscale e la lotta alla corruzione.
Naturalmente nel nostro ordinamento ci sono norme contro questi fenomeni, ma i riscontri numerici che puntualmente segnalano la portata dell’evasione fiscale e l’incidenza della corruzione sono di tale ampiezza da rendere urgente un nuovo e più efficace corpo di leggi.
La settimana scorsa (il 5 e il 7 febbraio) sono stati presentati due progetti di legge in tema di riforma fiscale e sulle sanzioni in materia fiscale.
Di solito, quando sono divulgati i dati sull’evasione fiscale e sulla corruzione, i media forniscono il giusto risalto a queste piaghe, salvo poi tralasciare il tema sino all’uscita dei successivi rapporti, senza considerare che corruzione ed evasione fiscale sono due emergenze, al pari della disoccupazione e della crisi economica e a queste direttamente legate.
La lotta all’evasione fiscale non manca nei programmi elettorali, ma quasi mai è tema di dibattito fra i partiti. Allo stesso modo, il richiamo all’evasione fiscale lo troviamo nelle leggi di Stabilità, con la funzione di recuperare risorse che altrimenti non risulterebbero coperte. Va anche detto che non esiste sistema fiscale immune dall’evasione: è particolarmente alta anche la cifra tedesca (158,736 miliardi), la seconda in Europa in termini quantitativi dopo quella italiana.
Nell’ottobre scorso Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti, ha quantificato la nostra evasione in 180,257 miliardi di Euro. In termini percentuali siamo a un’evasione che incide sul 27% delle entrate fiscali. Manca una legge penale tributaria efficace in questa direzione. Negli anni Novanta si era lavorato a una nuova legge, ma l’esito – nel racconto del giudice Bruno Tinti che è stato presidente in quel periodo di una commissione ministeriale ad hoc – è stato deludente e il decreto legislativo 74 approvato nel 2000, durante il governo dell’Ulivo, si è rivelato inutile allo scopo (Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2014).
A inizio febbraio è arrivato un altro dato proveniente dall’Ue in tema di corruzione. Secondo questa stima (poi smentita dalla nostra Corte dei Conti) l’Italia, da sola, muove in termini economici la metà della corruzione all’interno dell’Unione e il 10% a livello mondiale. In attesa di più puntuali valutazioni, resta l’indicatore del Transparency International, una graduatoria che pone in cima gli Stati più virtuosi, e che colloca il nostro Paese (dicembre 2013) al 69° posto per corruzione, su un totale di 177 Stati valutati. L’Italia resta tra i peggiori in Europa precedendo Grecia, Bulgaria e Romania. Davanti a noi, oltre ai paesi nord Europei, ci sono anche Montenegro, Macedonia, Arabia Saudita e Ghana.
I rilievi che giungono dall’Ue denunciano il legame tra politica, criminalità e impresa, un reato introdotto dal nostro Codice penale nel 1992 con l’articolo 416 ter (scambio politico – mafioso) il cui ambito di intervento è ritenuto troppo ristretto (limitato allo scambio promessa – denaro) e sostanzialmente inutile per colpire un quadro di rapporti che è molto più articolato.
Dopo Tangentopoli – che pure avrebbe dovuto essere un’importante lezione – non sono stati varati efficaci provvedimenti anticorruzione per evitare il ripetersi di quella triste esperienza e per recidere il costume. Anzi, si è proceduto nella direzione opposta: a metà degli anni Zero i provvedimenti varati dal centrodestra come la depenalizzazione del falso in bilancio e la riduzione dei tempi di prescrizione (legge ex Cirielli) sono stati esempi altamente negativi, perché si sono inseriti su un costume già portato all’accettazione di pratiche corruttive. Tali provvedimenti hanno aumentato le aspettative di impunità e hanno trasmesso un pericoloso segnale, attestando la corruzione come una strada sempre praticabile. Queste leggi sono state tra i provvedimenti che più hanno squalificato la classe politica certificando, al contempo, il netto cambiamento di clima rispetto a Tangentopoli. Da un recente sondaggio, risulta che l’88% degli italiani pensa che le tangenti e le raccomandazioni siano un modo normale per ottenere un servizio pubblico.
Sulla lotta alla corruzione soltanto nel 2012 è stata approvata la legge Severino, recentemente ricordata come strumento legato ai requisiti per candidare i deputati. La legge Severino nasce come complesso di norme anticorruzione, sollecitate proprio dall’Unione europea. I tempi ancora ravvicinati della sua approvazione impediscono di misurarne la reale efficacia, per quanto il fenomeno corruzione sembra avere segnato soltanto una timida, insufficiente inversione di tendenza (stando all‘indicatore internazionale abbiamo recuperato 3 posizioni in un anno).
In Italia non è ancora percepita la gravità del reato di corruzione e il peso dei suoi costi. Siamo in una condizione di arretratezza anche sul piano della percezione sociale: corruttori ed evasori fiscali sembrano non vedere intaccata la loro reputazione.
Questi temi si inseriscono sulle tare originarie del nostro Paese: si pensi all’alto potere corruttore delle mafie, alla mole dell’evasione fiscale che, in molti casi, diventa un capitale disponibile per il mercato della corruzione. È una vera emergenza che richiede provvedimenti diversi da quelli sinora varati, a cominciare dall’introduzione del reato di autoriciclaggio (già presente nelle legislazioni europee) che punisce chi ricicla in attività lecite il proprio denaro proveniente da attività illegali. Andrebbero inoltre contemplate disposizioni che favoriscano i collaboratori di giustizia.
Nuove normative su queste materie, accompagnate dal riscontro di risultati concreti, costituiscono la vera occasione per la politica di recuperare la sua credibilità.