È in quei tre anni che crebbero gli Skiantos, cuciti attorno alla figura di Freak, il leader indiscusso. Resta negli annali della musica il concerto al Pala Dozza, anno 1979, quando invece di suonare si misero a cucinare un piatto di spaghetti e alle urla rispondeva lui, Antoni: “Questa è avanguardia, pubblico di merda”. Antoni non è arrivato ai 60 anni di età, ma non l’aveva messo nemmeno in conto. “Se non altro la malattia mi ha fatto smettere con la droga”, diceva. Con la solita leggerezza e la sfrontatezza con la quale affrontò la vita, alla quale rubò il possibile, con tutto quelle che ne sarebbe venuto fuori. Quando non era l’eroina, a consumarselo, ci pensava il vino rosso.
All’essere un talento di insuccesso si era abituato, così come ci aveva abituati a quell’innato sarcasmo che lo portava a dire seriamente, almeno quanto seriamente riuscì a confrontarsi con la sua esistenza, che “se uno si impegna può stare male ovunque”. Aveva capito tutto molto tempo prima, questo sicuramente. Aveva capito che tanto valeva la pena buttarla in vacca. A raccontarlo oggi che non c’è più sembra quasi che la musica sia un elemento marginale. Niente di più falso: gli Skiantos furono prima di tutto raffinati musicisti e la sete di relegarli a una stagione di rock demenziale era solo questione tra critici. In realtà furono il punk italiano, prima di tutto. Aprirono una strada nella Bologna che sarebbe venuta dopo, a partire da Luca Carboni. Sulla “poetica” dei suoi Skiantos, Freak spiegava: “Nelle nostre canzoni abbiamo sempre mescolato due livelli, quello alto, escatologico, di impegno politico, e quello basso, scatologico, gergale… Ma la poesia ci insegna che non ci sono parole proibite, è solo la retorica che le divide in auliche o di basso livello. Ed è proprio la retorica, intesa come atteggiamento di supponenza ed ipocrisia, che rende volgari le cose”.
Di sopravvivenza Roberto Antoni, classe 1954, se ne intendeva. “Si dice che una volta toccato il fondo non puoi che risalire. A me capita di cominciare a scavare”. È sopravvissuto al suo amico Andrea Pazienza e alla crudezza dolce di Pier Vittorio-Tondelli, alla droga e alla morte di una compagna. Cicatrici, sogni, delusioni, rospi, ritorni per chi ha inciso una massima eterna: “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”. I propositi sono raccontati nei titoli dei suoi libri. Vademecum per giovani artisti, 6 non più di 6. Come fare un tema decente e rimediare un voto sufficiente. Per sopravvivere alla tossicodipendenza: manuale di prevenzione, Badilate di cultura. Per istinto, il ragazzo del Dams, anticipatore del Movimento del ‘77 ha sempre cercato di insegnare qualcosa, a prendersi sul serio mostrando di non farlo. Fino al concerto alla Woodstock politica di Beppe Grillo e dei suoi a Cesena, a fine estate 2010.
Nelle sue molte vite, da Beppe Starnazza agli Avanzi di Balera, Freak ha creato anche una band con Alessandra Mostacci, pianista classica e compagna anche nella vita, fino all’ultimo. La sua filosofia, perché alla fine di quella si tratta, è nell’ultimo disco degli Skiantos: Dio ci deve delle spiegazioni (possibilmente comprensibili). Ci mancherà, Roberto. Mancherà a tutti quelli che lo hanno sempre apprezzato e cercato di comprendere, per quanto i suoi ragionamenti fossero comprensibili. Mancherà a una Bologna che, per fortuna o purtroppo, non esiste più. Né più grassa, umana, dotta. Neppure più rossa, come la sua vocazione avrebbe voluto. Sbiadita, di un arancio sempre più chiaro.
Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2014