‘Pantadattilo’ è tornato. A dieci anni dalla morte, Marco Pantani rivive bicicletta, sudore e bandana nel documentario Pantani – titolo originale The Accidental Death of a Cyclist – diretto dall’inglese James Erskine, nelle sale italiane per tre giorni: il 17, 18 e 19 febbraio. In 92 minuti scorre tutta la vita del Pirata di Cesenatico: dalle ruspanti immagini delle corse amatoriali da ragazzino con zazzera riccia, alla maledetta stanza 5D del Residence le Rose di Rimini che lo ha visto morire il 14 febbraio 2014, passando per gli scatti e le vittorie di Tour e Giro nel ’98.
Un prologo sulla salita, le scalate, la fatica, il mito di Sisifo, l’apnea tra ragazzini di chi resiste di più. Una soggettiva dal manubrio della bicicletta, trovata espressiva semplice ma efficace, per guardare l’asfalto, come se gli occhi fossero dello stesso Pantani. L’ascesa, il primo movimento, l’apoteosi e la gloria. La discesa, secondo movimento, la solitudine e il dramma. Pantani è un film in due atti con un protagonista mai completamente felice, e un mondo che gli ruota attorno mai totalmente sincero.
“Ho cercato di recuperare nelle sue ore più buie, il Pantani ciclista geniale, corrotto da un sistema di ineluttabile oscurità”, spiega Erskine al fattoquotidiano.it, “un uomo che ha cambiato non solo il punto di vista dello spettatore ma ha diffuso la bellezza del ciclismo come sport. Un pioniere, un rivoluzionario e un genio, comunque un uomo, per questo imperfetto”.
Già, l’imperfetto Pantani, il meccanismo mentale e fisico che si blocca con quell’ematocrito leggermente più alto della norma nella tappa al Giro d’Italia di Madonna di Campiglio (1999). Pantani riscende nuovamente le scale dell’Hotel Touring, lo guardi negli occhi e vedi che è finita. Lo spiegano gli amici, gli ex allenatori, gli ex colleghi e compagni – Marco Velo della Mercatone Uno è ancora commosso: da quel giorno in avanti Pantani fu ossessionato dal complotto, dentro quella stanza successe qualcosa di strano. Si è detto di tutto da allora ad oggi e nel documentario Erskine rinfocola il dubbio facendo dire ai suoi protagonisti: “Marco era troppo famoso, dava fastidio”. O ancora di più, come dice Romano Cenni della Mercatone Uno: “A Milano dissero al bandito Vallanzasca, che era in prigione, di non scommettere su Pantani vincente perché non sarebbe arrivato a Milano”.
“Ho pensato che dovevo raccontare la figura di Pantani proprio quando ho sentito la confessione sul doping di Lance Armstrong”, racconta Erskine. Ecco, allora quell’ombra che continuamente si allunga sul campione triste che invece di godersi la fama finisce subito sbranato dal circo mediatico e dal mondo del ciclismo pieno di sacche d’eritropoietina. E la spiegazione che riporta ancora il regista, con un titolo originale identico alla pièce teatrale di Dario Fo sulla morte di Pinelli: “È vero, il riferimento è voluto, nel senso che parliamo della morte di un uomo, rispetto alla quale nessuno si è preso la responsabilità, quando invece tutti ne erano responsabili”.
La galleria di volti noti è da brivido, c’è perfino Maradona. Scorrono il grimpeur Ugrumov (abitava vicino al residence riminese dove morì Pantani), l’avversario Berzin (oggi gonfio come un otre), e il campione inglese Bradley Wiggins: “Amava Marco, amava lo sportivo, il campione. Anche se la figura più straordinaria ed elegante che ho intervistato e inserito molto nel film è mamma Tonina: in lei convivono contemporaneamente tristezza, gioia e confusione”.
Passano veloci gli inizi pioneristici di Pantani, la bici rossa comprata con l’aggiunta dei soldi del nonno, la fidanzata Cristina poi fuggita con un altro, le interviste al campione romagnolo di Minà e Zavoli alla ricerca dell’umanità perduta, poi l’albergo della morte: “La mia impressione al di là di qualsiasi inchiesta giudiziaria”, chiosa Erskine, “è che Pantani non si sia né suicidato, né ucciso. È morto accidentalmente. E il mio film è un tributo alla sua memoria”.