Ministro Alfano, cosa intende lei per disonore? Me lo chiedo dopo aver letto la risposta al question time sulle sanzioni disciplinari comminate ai quattro agenti di Polizia condannati in via definitiva perl’omicidio colposo di Federico Aldrovandi.
Nel foglio si legge che quei consigli, “proprio in considerazione della natura non dolosa della condotta”, hanno ritenuto “congrua la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio (applicata peraltro nella misura del massimo edittale), rispetto a quella più grave della destituzione”.
Il ministero da Lei diretto cita a suo favore il decreto del Presidente della Repubblica n. 737 del 1981 che disciplina i casi di negligenza in servizio di particolare gravità e di comportamento non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza”.
Proprio in quel dpr si contempla la destituzione per il poliziotto “la cui condotta abbia reso incompatibile la sua ulteriore permanenza in servizio”. Vale a dire atti che rivelino mancanza del senso dell’onore o del senso morale, o atti in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento, grave abuso di autorità o di fiducia.
Ministro Alfano, cosa intende lei per mancanza del senso dell’onore o del senso morale? Le commissioni, scrive il suo ministero, “hanno deliberato sulla base dell’accertamento dei fatti e della responsabilità penale così come ricostruiti nella sentenza irrevocabile di condanna”.
Ministro Alfano, sa come sono stati ricostruiti i fatti nelle sentenze dei tre gradi del processo Aldrovandi? Il giudice di primo grado ha scritto che “ciascuno dei 54 punti di rilievo medico-legale potrebbe singolarmente dare corso ad un procedimento penale per lesioni”. Si riferiva alle 54 ferite sul corpo di Federico. Lesioni, queste, che “ne hanno deformato l’aspetto e che evidenziano non certo ferite a carattere mortale e tanto meno gravemente lesive, ma la grossolanità e l’incontrollato e abnorme uso della violenza fisica da parte degli agenti, dissociata da effettive necessità del momento e dagli scopi che dovevano essere, in ipotesi, ragionevolmente perseguiti”.
Quanto ai quattro agenti, il giudice Caruso annota come in via Ippodromo, quel 25 settembre del 2005, i poliziotti misero in atto “uno scontro violento, prolungato, doloroso, di una serie continua di contatti violenti, effetto delle due colluttazioni in cui Aldrovandi fu coinvolto”. Colluttazioni descritte come “un furioso corpo a corpo tra gli agenti di polizia e Federico, durante il quale vennero rotti due manganelli, con i quali colpirono l’Aldrovandi in varie parti del corpo, continuando dopo che lo stesso era stato costretto a terra e qui immobilizzato al suolo, nonostante i verosimili ma impari tentativi del ragazzo di sottrarsi alla pesante azione di contenimento che ne limitava il respiro e la circolazione”. Infine, “alla gravità della colpa – concludeva il tribunale di Ferrara – si associano gli aspetti negativi più propriamente processuali con l’assenza di concreti segni di pentimento e di consapevolezza degli errori commessi, tradottisi in palesi menzogne e in ostacoli frapposti all’accertamento della verità”.
Ministro Alfano, se ritiene che il giudice di primo grado sia stato eccessivo nel suo giudizio, sa cosa disse la Corte d’Appello di Bologna? Disse che i quattro poliziotti hanno compiuto un intervento “ingaggiato senza reale necessità che non fosse quella di vendicare l’affronto subito poco prima da Pollastri e Pontani (la prima pattuglia con cui Federico ebbe contatto, ndr) con la seconda colluttazione”. Disse che la “manovra di arresto, contenimento e immobilizzazione” venne attuata “con estrema violenza e con modalità scorrette e lesive, quasi volessero ‘punire’ Aldrovandi”. Disse che “ognuno di loro ha percosso o calciato il ragazzo, anche dopo essere stato atterrato, e ognuno di loro non ha richiesto l’invio di personale medico prima di ‘bastonare di brutto per mezz’ora’ (la frase detta da Pontani al telefono con la centrale operativa del 113 e registrata, ndr), ma soltanto dopo averne vinto con violenza la resistenza”.
La Corte continua deplorando l’intervento che “si stava trasformando in un autentico pestaggio”, in una accettazione di “violenza gratuita, assolutamente vietata dalle regole” e stigmatizza il fatto che i condannati “non [abbiano] voluto squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta sin dalle prime ore di quel 25 settembre 2005, getta una luce negativa sulla loro personalità”.
Ministro Alfano, vuole sapere se la Cassazione fu più clemente in merito a quelli che il suo dicastero chiama “casi di negligenza”? Partiamo dal procuratore generale Mazzotta che ricordò come “in una sorta di delirio agendo come schegge impazzite, anziché come responsabili rappresentanti delle forze dell’ordine, gli agenti ritennero di trovarsi davanti a un mostro dalla forza smisurata che aveva solo tirato un calcio a vuoto, e lo hanno immobilizzato, percosso fino a farlo ricoprire di ematomi”.
Veniamo quindi alla Suprema Corte, che ha negato le attenuanti per la gravità del fatto e per aver “distorto dati rilevanti, per il seguente sviluppo delle indagini, sin dalle prime ore successive all’uccisione del ragazzo”. La Cassazione nelle sentenza rammenta – non a lei ministro Alfano, non si crucci – che i quattro “sferrarono numerosi colpi contro Aldrovandi, non curanti delle sue invocazioni di aiuto” e la “serie di colpi proseguì anche quando il ragazzo era stato fisicamente sopraffatto e quindi reso certamente inoffensivo”. Per la prima volta un tribunale descrive anche i ruoli dei quattro in quei momenti fatali: “Segatto lo colpiva alle gambe con il manganello, Pontani e Forlani lo tenevano schiacciato a terra, mentre Pollastri lo continuava a percuotere”. Lo percuoteva con calci alla testa, disse l’unica testimone oculare che volle parlare. Ancora: gli agenti hanno tenuto “condotte specificamente incaute e drammaticamente lesive”, nonostante la “consapevolezza di agire in cooperazione imponeva a ciascuno di interrogarsi sull’azione dei colleghi, se del caso agendo per regolarla, moderandola”. E invece la “reciproca vigilanza è mancata”. Quanto poi al “comportamento processuale”degli imputati, si sottolinea che hanno “anche omesso di fornire un contributo di verità al processo da reputarsi doveroso per dei pubblici ufficiali, a fronte delle manipolazioni delle risultanze investigative pure realizzate dai funzionari responsabili della Questura di Ferrara”.
Ecco ministro Alfano cosa dicono le sentenze. È questo che lei intende per deliberare “sulla base dell’accertamento dei fatti e della responsabilità penale così come ricostruiti nella sentenza irrevocabile di condanna”? Forse lei contemplava comportamenti extraprocessuali. Come quello dell’agente Paolo Forlani, che su facebook scrisse, in riferimento alla madre del ragazzo ucciso,“ma che faccia da culo aveva sul tg…. Una falsa e ipocrita… spero che i soldi che ha avuto ingiustamente possa non goderseli come vorrebbe. Adesso non sto più zitto, dico quello che penso e scarico la rabbia di 7 anni di ingiustizie…”.
O forse al pentimento dell’agente Enzo Pontani, sottolineato dalle conclusioni del tribunale di sorveglianza di Bologna:“Pure in mancanza di piena e sentita autocritica, quanto meno sarebbe stato necessario registrare da parte del condannato, specie in quanto Pubblico Ufficiale, una qualche consapevole rilettura non strumentale ed in limine di esecuzione di quanto avvenuto; mentre, come detto, ancora emerge dalle stesse dichiarazioni del Pontani una non corretta valutazione della vicenda, sia pure colposa, ed una chiusura tuttora su un atteggiamento di difesa e di giustificazione, pressoché totale del proprio operato”.
Ministro Alfano, inizio ad aver paura del suo concetto di disonore.