Habemus capolavoro. Boyhood di Richard Linklater si candida a vincere l’Orso d’oro di Berlino 2014. Certo, il deludente concorso ne ha rimarcato lo splendore – semmai ne avesse bisogno – del film più atteso al giudizio di critica e pubblico presenti nella capitale tedesca, già osannato al Sundance il mese scorso da cui è uscito cum laude. Unico nel suo genere, Boyhood è stato realizzato in 12 anni, ovvero dal luglio 2002 agli inizi di quest’anno: 39 giorni di riprese effettuate ogni anno a scadenze variabili.
Vi si racconta la storia di una famiglia qualunque del Texas (Stato di provenienza del regista) composta da una madre (Patricia Arquette) e due figli: Samantha (Lorelei Linklater, figlia di Richard) e il fratellino Mason Jr. (Ellar Coltrane), protagonista e punto di vista del film. Inizialmente Mason ha 6 anni, subito inquadrato nel suo sguardo curioso, sereno, a fine film – che dura 164’ – ne avrà 18. La madre è separata dal padre dei ragazzi, Mason Sr. (Ethan Hawke) e nel corso dei 12 anni vediamo entrambi risposarsi (la madre divorziare nuovamente) dando forma a nuovi nuclei famigliari pur rimanendo indissolubilmente legati ai due pargoli. È la vita, quella quotidiana dal sapore straordinario per come riesce a mostrarla Linklater, che scorre tra gioie e dolori, successi e fallimenti.
L’elemento straordinario che distingue Boyhood da qualunque documentario “life long” (pensiamo ai Bambini di Golzow documentario-reality iniziato nel 1961 dalla DEFA dell’allora DDR e finito nel 2007) o reality-show è che si tratta di un vero e proprio film di finzione apparentemente girato in un blocco unico e non in frammenti distanziati. Miracolo progettuale, registico e di montaggio, nonché straordinario per le perfomance degli attori – specie dei bambini, non professionisti, nel loro crescere anagraficamente ma non nell’ammiccamento con la macchina da presa. Sullo sfondo della storia privata della famiglia, scorre la Storia americana: ed anche qui non esiste momento in cui Linklater “sfondi” il duplice racconto con fastidiosa retorica da news televisiva.
Se la consueta ironia del suo sguardo resta immutata (ad esempio nelle inquadrature dei bambini che svogliati recitano gli inni americano e texano, o nel siparietto in cui Mason Sr e Jr promuovono la candidatura del primo mandato di Obama nascondendo i poster su McCain) altrettanto determinata si impone la sua volontà di non giudicare i suoi personaggi e le loro azioni. Il missaggio realismo/finzione supera i codici della verosimiglianza, siamo cioè in un territorio “altro”, all’interno di un percorso linguistico/estetico di un cinema che ha assorbito le sperimentazioni audio-visive più complesse. Il risultato è il collaudo di un dispositivo di apparente semplicità, in un’armonia lineare ed emozionante. Erroneo sarebbe parlare di cinema “ibrido”: questo è un film meta-classico, dai canoni epici, che invece di mostrare i personaggi invecchiati dal “trucco” opta per la strada della Verità, cioè essi invecchiano realmente in un tempo reale, magistralmente ri-montato.
Boyhood può assomigliare a una sorta di Heimat “contratta” e profondamente americana, però non divisa in episodi né separata annualmente da cartelli. I deittici temporali sono appena sfumati, e sempre rispettosi del punto di vista da cui proviene lo sguardo. Tutto converge in fluidità e coesione, in narrazione come drammaturgia. E non manca la suspense di cui è composta la vita di ogni giorno. Da come ci è parso in una prima visione alla Berlinale, Boyhood è destinato a segnare la Storia del cinema, certamente di quello Americano contemporaneo, e in assoluto di quella sul racconto della famiglia in ogni sua declinazione (non a caso il caposaldo della società americana…), di cui può diventare una delle pietre miliari. Fortunatamente uscirà anche in Italia, distribuito da Universal. Capolavoro.