Sto leggendo un bel libro curato dalla giornalista Francesca De Carolis, dal titolo Urla a bassa voce, che contiene interventi di trentasei ergastolani assoggettati al regime di eccezione previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, da cui deriva la negazione dei benefici previsti dalla Legge Gozzini.
Si tratta in pratica di persone sepolte vive. Ritenute colpevoli di gravissimi reati contro la persona e spesso di appartenenza alle organizzazioni criminali che controllano tuttora parte non indifferente del territorio nazionale, come la mafia, la camorra, la ndrangheta, la sacra corona unita e simili. Quindi i nemici pubblici numero uno cui va immediatamente il pensiero dei bravi cittadini non appena sentono parlare di amnistia o indulto.
Eppure, per quanto siano o possano essere criminali, sono pur sempre persone.
Il merito del libro di Francesca De Carolis è quindi innanzitutto quello di metterci in contatto diretto con queste persone, dando anche a loro la possibilità di una testimonianza. Un’esistenza sociale, determinata dalla presa di parola in pubblico per dire la loro.
Nella prefazione al libro Don Luigi Ciotti fa riferimento alla giurisprudenza costituzionale in materia di ergastolo. Al riguardo va osservato che in realtà la Corte costituzionale ha ritenuto di giustificare il carcere a vita adducendo le presunte finalità di prevenzione generale di tale pena. Al tempo stesso però la Corte, in particolare nella sua sentenza 264 del 1974, ha ritenuto che le finalità di riadattamento sociale sarebbero comunque salvaguardate dalla possibilità di liberazione condizionale. Possibilità peraltro appunto esclusa dagli articoli precedentemente citati.
Ci troviamo insomma di fronte a un grave caso di conflitto tra finalità apparentemente divergenti. L’ergastolo cosiddetto ostativo cui sono condannati i protagonisti del libro, non prevede infatti nessuna possibilità di liberazione condizionale.
Ciò suscita ulteriori riflessioni su di un piano ancora più generale. La criminalità organizzata deve essere sconfitta con strategie di ampio respiro politico e sociale. La liquidazione della legge Fini-Giovanardi operata qualche giorno fa dalla Corte costituzionale costituisce per le cosche un colpo ben più grave e forte di cento ergastoli ostativi, dato che il potere del narcotraffico, che costituisce una delle attività principali della criminalità organizzata è fondato sul proibizionismo. Come ben ci insegna la storia della criminalità statunitense negli anni Venti.
Per non parlare dei nessi evidenti fra criminalità e politica. Che coerenza può vantare un sistema politico che oggi ricicla, ad opera del suo astro nascente Matteo Renzi, un personaggio come Berlusconi, di cui è noto il rapporto di stretta collaborazione con Dell’Utri, che ha dichiarato che il boss conclamato Vittorio Mangano è stato un eroe “per non aver parlato”, osservando così in modo secondo lui ammirevole uno dei comandamenti centrali del codice mafioso?
Questi, e molti altri, come l’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, le mille facce della corruzione, il traffico dei rifiuti pericolosi che ha condannato a morte intere regioni in cui sono implicati non solo i mafiosi ma gli industriali che li hanno utilizzati e che oggi non vengono adeguatamente perseguiti, sono i veri motivi del potere persistente delle organizzazioni mafiose nel nostro Paese. Per non parlare dell’indebolimento dell’azione preventiva e repressiva che scaturisce dai tagli alla spesa pubblica.
A fronte di questo potere e delle sue cause reali, gli ergastoli ostativi costituiscono solo una foglia di fico. Ovvero l’altra faccia della medaglia. Se in casi precisi e circostanziati l’uso di una determinata strategia giudiziaria può essere utile ad acquisire informazioni e indebolire l’organizzazione criminale, non bisogna perdere di vista la necessità di una risposta sociale, politica e culturale alla criminalità.
In tale ottica, ha senso occuparsi anche dei diritti dei condannati. Dando loro una possibilità di riadattamento sociale. Perché la sconfitta del sistema culturale su cui si regge oggi in Italia il potere della criminalità deve necessariamente passare per l’affermazione dei valori costituzionali fra i quali assume rilievo centrale quello affermato dall’art. 27, secondo il quale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato “.