Un ex dirigente mette a verbale la sua versione sul ruolo dell'amministratore delegato del colosso petrolifero nella presunta corruzione internazionale della controllata
Paolo Scaroni si prepara a essere riconfermato amministratore delegato dell’Eni. Una carica che vale più d’un ministero. Dal vertice dell’ente petrolifero italiano si fa politica estera, economia, finanza… Su quella poltrona ci sta seduto da nove anni, Scaroni, uno degli uomini più potenti d’Italia, garante di equilibri delicatissimi e con una rete di ottimi rapporti a destra e a sinistra. La sua carriera non è stata danneggiata dall’incidente che gli è capitato nel 1992 quando, da manager Techint (gruppo Rocca), fu arrestato dai magistrati di Mani Pulite per aver pagato tangenti ai partiti, in cambio di appalti Enel. Dieci anni dopo, nel maggio 2002, fu nominato dal governo Berlusconi amministratore delegato dell’Enel: proprio l’azienda pubblica da cui aveva “comprato” appalti a suon di mazzette (“Something that in retrospect is somewhat ironic”, si permise di commentare il Financial Times).
Nel 2005 diventò amministratore delegato dell’Eni. Dimenticata la condanna del passato, oggi non lo scalfisce neppure l’inchiesta in corso sulle tangenti pagate dal gruppo Eni in Algeria. Le vecchie mazzette di Tangentopoli, quelle che gli costarono l’arresto, al Financial Times nel 2002 le spiegò così: “In un paese in cui gli affari e il governo erano così strettamente intrecciati, dove le istituzioni erano controllate dai politici, era possibile comportarsi in modo diverso? La risposta semplice è: no, non era possibile”. Chissà se questa ammissione vale anche per la vicenda algerina.
Commesse africane, intrigo internazionale
L’inchiesta Eni-Saipem affronta il filone italiano di un grande scandalo internazionale scoperto nel 2012, ma deflagrato nel febbraio 2013, quando il pubblico ministero milanese Fabio De Pasquale manda la Guardia di finanza a perquisire gli uffici di Roma e San Donato di Eni e Saipem, ma anche l’abitazione milanese di Scaroni. L’ipotesi d’accusa è che sia stata pagata una tangentona da quasi 200 milioni di euro (198, per la precisione) al ministro algerino dell’energia Chekib Khelil e al suo entourage, per ottenere otto grandi appalti petroliferi del valore complessivo di 11 miliardi di euro. Una cifra da capogiro. La “commissione” di 198 milioni è stata versata da Saipem, società del gruppo Eni, alla società Pearl Partners, basata a Hong Kong e controllata da un giovane e riccioluto faccendiere internazionale con passaporto francese che oggi è latitante, ma che prima dello scandalo girava il mondo con “la corte dei miracoli che si porta appresso”: è Farid Bedjaoui, uomo di fiducia del ministro Khelil e intermediario tra gli algerini e i manager Saipem. Indagati per corruzione internazionale, oltre a Paolo Scaroni, sono, tra gli altri, l’amministratore delegato di Saipem Franco Tali, il direttore operativo Pietro Varone, il direttore finanziario Alessandro Bernini, il direttore generale per l’Algeria Tullio Orsi, il responsabile Eni per il Nordafrica Antonio Vella.
In casi come questo, succede spesso che qualcosa della tangente pagata all’estero torni in Italia, come “ringraziamento” ai manager che hanno concluso l’affare. Per ora l’accusa ha individuato il “ritorno” di una decina di milioni: 5,29 planati sui conti di Varone, 5,17 su quelli di Orsi. C’è dell’altro? Le indagini continuano. E soprattutto: qual è stato il ruolo di Scaroni in questa vicenda?
Lui dice di non saperne nulla. “Siamo totalmente estranei”, ha dichiarato all’Ansa, dopo che era stata perquisita la sua abitazione milanese, “e il gruppo continuerà a fornire la massima cooperazione alla magistratura”. Ma i manager coinvolti, indagati o arrestati, qualcosa hanno raccontato, qualcosina hanno ammesso e le loro versioni non sempre combaciano con la sua. Dice Tullio Orsi: “Scaroni ha partecipato a un incontro a Parigi” con gli algerini, durante le trattative per stabilire la “commissione”. Dichiara Pietro Varone: “Scaroni sapeva tutto”.
Il racconto del manager operativo di Saipem è articolato. “Ho lavorato molto all’estero e so che si deve pagare, in certe situazioni”. L’Algeria è una di “queste situazioni”, dice Varone, che ha conosciuto il faccendiere Farid Bedjaoui nel 2005, a Parigi: glielo presentano, all’Hotel George V, come un personaggio in grado di risolvere vecchi contenziosi aperti tra Saipem e Sonatrach, l’ente petrolifero algerino. Poi da cosa nasce cosa. L’anno seguente, Farid organizza, sempre a Parigi, all’Hotel Four Seasons questa volta, un incontro tra gli uomini Saipem e il ministro algerino dell’energia. Racconta Varone: “C’eravamo io, Tali, Bedjaoui e il ministro”. “Fu Bedjaoui a presentarci il ministro e il ministro confermò che Bedjaoui era persona di cui lui si fidava”. Lo accredita esplicitamente: “Questa è una persona di mia fiducia”. Si aprono così discorsi su nuovi affari petroliferi da realizzare in Algeria. A un certo punto, Bedjaoui parla chiaro: “Sì, si può fare, però abbiamo bisogno di stabilire chiaramente dei compensi… Bisognerebbe pagare delle commissioni”. Parte una trattativa. “Io mi ricordo che lui all’inizio voleva di più”, riferisce Varone ai magistrati. Il manager tratta con l’intermediario che ha avuto l’investitura del ministro algerino e riferisce passo dopo passo al suo capo, Franco Tali, che sa e approva: “Tali ha dato l’ok”. Ma l’affare, anzi gli affari, sono davvero grossi. Viene allora coinvolto anche il gran capo, Scaroni, che incontra il ministro Khelil a Parigi e poi partecipa, insieme all’uomo dei conti Saipem, Bernini, a un pranzo con Bedjaoui all’Hotel Bulgari di Milano.
Chi ha il vero potere sull’azienda
Scaroni è amministratore delegato dell’Eni. Gli appalti in discussione sono invece per Saipem, che è la società del gruppo che apre i cantieri, scava i pozzi, costruisce gli oleodotti. Come mai in affari Saipem viene coinvolto anche Scaroni? Varone, 26 anni in Saipem, “ha visto, diciamo, tante gestioni”, osserva durante un interrogatorio il pm De Pasquale. Ha dunque la possibilità di rilevare le metamorfosi dell’azienda. “Diversamente dalla gestione di prima, Scaroni… negli ultimi tre o quattro anni… Saipem , l’ufficio legale, l’internal audit, l’amministratore delegato riportavano puntualmente alle loro controparti in Eni”, spiega Varone nell’interrogatorio del 18 ottobre 2013. “Noi siamo sempre stati una società indipendente, tra virgolette, ma nella sostanza, dottore, non c’era nessun fatto importante che non venisse visto dall’altra parte e approvato”.
Diversa era la gestione del precedente amministratore delegato dell’Eni, Vittorio Mincato: “Aveva un rispetto assoluto per l’indipendenza dell’Eni… Mincato non voleva nessuno, diciamo, dei politici che in qualche modo cercasse… di influenzare le decisioni dell’Eni. Mincato diceva ‘questa è la mia azienda’”. Con Scaroni, Saipem diventa invece – chiede allora il pm – una specie di divisione dell’Eni? “Eh, diciamo che non lo sarebbe dovuta essere, ma con la gestione scaroniana negli ultimi tre anni del suo ultimo mandato la cosa avvenne. È avvenuta”.
Saipem deve dunque riferire a Eni. Tanto che ai manager Saipem, constata uno spazientito Varone, “alla fine non gliene fregava nulla di quello che dicevo io, piuttosto che a volte anche Tali quando Tali non c’era, ché di fatto poi loro dovevano rispondere all’Eni delle loro azioni”. Così “non c’è nessun dubbio che Tali abbia informato Scaroni. La conferma è nel fatto che quando Scaroni voleva parlare di Algeria, ha chiesto a Bedjaoui di organizzare l’incontro. E già questa di fatto è una conferma”. Scaroni, racconta infatti Varone, chiede a Tali di organizzare un incontro con il ministro algerino. “E Bedjaoui gliel’ha organizzato”. “Quindi se Scaroni non fosse stato a conoscenza di Bedjaoui e roba varia, perché avrebbe chiesto a Tali di organizzare un incontro sull’Algeria, mi perdoni?”. “E roba varia” sta per trattativa sulle ricche “commissioni” da riconoscere agli algerini. Il gran capo voleva un incontro più riservato. “L’ha avuto”, conferma Varone. “Tali mi informò che doveva organizzare un incontro tra Scaroni e il ministro, attraverso Bedjaoui”. A questo punto, il pm De Pasquale gli chiede: come mai aveva l’esigenza d’incontrare il ministro, e in condizioni riservate? Varone spiega che non l’ha neppure chiesto: “A volte è meglio non farle, le domande”.
Il 10 luglio 2008, sulla posta elettronica di Bernini (sequestrata dagli investigatori) si legge: “incontro con Scaroni e F”. Chi è F? Secondo i magistrati è Farid, Farid Bedjaoui, l’intermediario riccio del ministro. “Ho la certezza dell’incontro a Parigi”, ribadisce Varone, “e la certezza che c’è stato un incontro a Milano”. C’è stato un meeting anche a Vienna, dove Scaroni ha incontrato il ministro Khelil, il quale non voleva dare appuntamenti ai suoi interlocutori internazionali in Algeria, dove i suoi movimenti erano controllati dai servizi segreti del suo paese. E per le comunicazioni riservate, distribuiva cellulari di Dubai. Scaroni ha spiegato: “Ho avuto incontri ufficiali con il ministro di un paese dove l’Eni aveva forti interessi”. Sì, ma perché incontrarsi segretamente in alberghi di Parigi, Milano e Vienna e non nelle sedi istituzionali?
La commissione da 41 milioni
Una delle otto commesse trattate con Sonatrach riguardava il giacimento di Menzel Ledjemet Est (Mle), che Eni eredita da una compagnia petrolifera canadese, la First Calgary. Mle più l’adiacente campo petrolifero Cafc formano quello che nel settore viene chiamato “giant field”, giacimento gigante. Un affare succulento. Solo per questo, viene concordata e pagata da Saipem una “commissione” di 41 milioni di euro. “Mi dissero che erano 41 milioni da includere all’interno del contratto di mediazione per il progetto Mle”, racconta Varone. “Io fui meravigliato dal fatto che Saipem dovesse pagare un qualcosa per una commessa Eni… Non si è visto né in cielo né in terra, insomma. Non esiste. E mi fu detto che… invece bisognava… Eni abbisognava di questo ammontare”. La cifra di circa 41 milioni, chiede il pm De Pasquale, “venne fuori all’esito di queste negoziazioni tra Khelil, Bedjaoui e Scaroni?”. Varone conferma: “Sì. Sì. Sì”. “Ciò mi fu detto da Bedjaoui e confermato da Vella”. De Pasquale: “L’approvazione di Eni coinvolgeva, mi pare di capire, anche il quantum”. Varone: “Ah, sicuramente sì”.
Nell’interrogatorio del 27 novembre 2013, il pm torna alla carica. Fa notare a Varone che Scaroni ha ammesso di aver incontrato Bedjaoui, ma di aver sempre ritenuto che si trattasse del segretario particolare del ministro Khelil. Dunque, i suoi erano incontri istituzionali. Varone insorge: “Guardi, che Scaroni dica così è chiaramente falso”. E poi spiega: “Non può essere così, perché Tali avrà parlato con Scaroni dell’Algeria. Anche le varie e-mail mostrano che si è parlato dell’Algeria e si conoscono delle informazioni… Non poteva non sapere”. Insomma: Scaroni era a conoscenza della trattativa in corso con Bedjaoui, “commissioni” comprese. “È chiaro che Scaroni sapeva tutto e che Tali ci parlava”. Il pm fa presente che non gli piace la formula “non poteva non sapere” e allora chiede: la cifra totale della quale voi di Saipem vi sareste fatti carico per Mle venne fuori da negoziazioni tra il ministro, Scaroni e Bedjaoui. Questa cosa chi gliel’ha detta? “Bedjaoui”. Quindi non si parlava di politica tra Khelil e Scaroni? “Avranno parlato di tutto e di più, insomma è chiaro. Però anche del fatto che Saipem si sarebbe fatta carico del discorso Mle”. Cioè il discorso delle commissioni… “Delle commissioni, esatto”.
Quando l’Eni, nel 2008, rileva la First Calgary, chiede a Saipem di inserire anche questa partita nelle tangenti agli algerini: “La richiesta che mi fu fatta”, specifica Varone, “è che bisognava mettere all’interno del contratto un ammontare sul contratto che c’era tra Saipem e Sonatrach, un ammontare che doveva servire a Eni per poter avere tutti i benestare e le autorizzazioni per poter andare avanti nella questione First Calgary”. Le tangenti erano un “costo che sosteneva Saipem” per la casa madre Eni. Impossibile che i vertici Eni non sapessero nulla. “Orsi era a conoscenza di tutto, Tali era a conoscenza di tutto”, ripete Varone. “Tali diceva di andare avanti, perché poi era compito suo e parlava con Scaroni”.
Serve un capro espiatorio
L’inchiesta su Saipem era decollata già a fine 2012. Il 22 novembre di quell’anno, la Finanza sequestra alla nipote della moglie di Varone una valigia. È una “valigia parlante” – così la chiama De Pasquale – perché contiene i documenti che fanno capire chi c’è dietro la Pearl Partners. Scattano le contromosse: viene convocato un incontro congiunto Saipem-Eni, una riunione “a sezioni unite” – così la definisce il pm – un “gabinetto di guerra”. “Eni chiama Saipem e gli dà delle istruzioni ben precise, come comportarsi”, racconta Varone, che a quella riunione non c’è perché è in viaggio di lavoro in Angola, ma è informato da un suo uomo, Giovanni Cerchiarini. “Mi disse chiaramente che la riunione verteva esclusivamente sul fatto: ‘Nessuno di noi sa nulla, mi raccomando. L’unico responsabile, che era già stato indicato da Scaroni mesi prima di essere il capro espiatorio, è Varone. Ci siamo capiti?’. Questo era l’ordine di scuderia”. Il manager viene licenziato. Se ne vanno, è vero, anche Tali e Bernini, ma il primo esce da Saipem “con 7 milioni di liquidazione”, fa notare Varone, e il secondo se ne va da Eni “con dei benefici economici e senza licenziamento”. Oggi è direttore finanziario del Gruppo Maire Tecnimont. “Io invece sono l’unico responsabile, il capro espiatorio”. L’inchiesta continua.
Da Il fatto Quotidiano del 12 febbraio 2014
La precisazione dell’Eni
In relazione all’articolo pubblicato ieri dal Fatto Quotidiano a firma di Gianni Barbacetto (“Tangenti algerine, le accuse a Scaroni nel caso Eni-Saipem”), non vogliamo entrare nel merito delle asserzioni rilasciate dal signor Varone. La risposta puntuale sarà data nell’ambito delle aule giudiziarie. Data la rilevanza mediatica concessa a tali asserzioni, ci preme comunque evidenziare come Eni e il suo amministratore delegato abbiano più volte ribadito la loro estraneità ai fatti oggetto di indagine. Le asserzioni del signor Varone risultano in evidente contraddizione con i fatti accertati anche attraverso verifiche interne indipendenti condotte da Eni e Saipem su oltre 300 mila documenti, tra i quali la posta elettronica di diversi manager di Eni e Saipem. A titolo esemplificativo, nell’articolo si fa riferimento a un incontro che si sarebbe tenuto a Milano il 10 luglio 2008, al quale avrebbe partecipato il dott. Scaroni. Peccato che quel giorno l’ad di Eni fosse a Roma all’Autorità per l’energia elettrica e il gas e successivamente presso un ministero. Per quanto riguarda i motivi che avrebbero portato il sig. Varone a fare le affermazioni, che hanno contenuto diffamatorio, riportate dal vostro giornale e da altri media, non vogliamo entrare nel merito di tale aspetto, ma è opportuno ricordare che a fronte delle prime evidenze emerse con gli sviluppi dell’indagine nel novembre del 2012, il sig. Varone è stato licenziato da Saipem anche in seguito alla rigorosa reazione del dott. Scaroni, espressa in qualità di ad della controllante Eni, pur nella salvaguardia dell’autonomia gestionale di Saipem in quanto società quotata.
Ufficio Stampa Eni
La vicenda Eni-Saipem è stata ricostruita dal Fatto sulla base delle dichiarazioni dei protagonisti, da Tullio Orsi a Pietro Varone, fino allo stesso ad di Eni Paolo Scaroni, di cui sono state fedelmente riportate le dichiarazioni ufficiali. La data del 10 luglio 2008 appare nelle carte giudiziarie non come data di uno degli incontri a cui Scaroni ha, secondo vari testi, partecipato, ma come data della email in cui sulla posta elettronica di Bernini si accenna a uno di questi incontri.
Gia. Bar.