La condanna a 12 anni di carcere per il parlamentare della sinistra sudcoreana Lee Seok-ki non ha precedenti nella storia della democrazia nel Paese.
Per la prima volta dalla fine del regime, un componente dell’Assemblea Nazionale è stato condannato con l’accusa di complotto e di aver organizzato una rivolta armata per rovesciare il governo. Ai tempi dell’autoritarismo sudcoreano, prima della transizione democratica alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, accuse di questo genere erano usate per mettere a tacere i dissidenti e gli attivisti per i diritti civili. Nel 1980, ricorda l’agenzia semi-ufficiale Yonhap, fu usata anche contro il futuro presidente e premio Nobel per la pace, Kim Dae-jung.
Anche secondo il 52enne deputato del Partito progressista unito (Upp), tutta la vicenda è una montatura, pertanto i legali hanno già annunciato appello contro la sentenza dei giudici del tribunale distrettuale di Suwon.
Lee era stato arrestato lo scorso settembre assieme ad altri militanti del suo partito, la forza più a sinistra del parlamento sudcoreano. Secondo le informazioni raccolte dai servizi d’intelligence, Lee fa parte di un gruppo clandestino noto come Organizzazione rivoluzionaria. I documenti presentati durante il processo dicono che lo scorso maggio, durante una riunione con circa 130 militanti dell’organizzazione, Lee propose una serie di attacchi contro le infrastrutture del Paese.
In quei mesi si era nel pieno delle tensioni tra le due Coree per il terzo test nucleare condotto da Pyongyang a febbraio e per le minacce nordcoreane di attacco contro il Sud, il Giappone e gli Stati Uniti. Gli eventuali attentanti di cui Lee è accusato avrebbero pertanto avvantaggiato il Nord in un eventuale conflitto aperto.
Sullo sfondo ci sono i rapporti tra i due governi della penisola, ufficialmente in guerra da 63 anni, senza che l’armistizio del 1953, con cui si mise fine a tre anni di conflitto, sia mai stato tradotto in un vero accordo di pace. Una situazione che influisce sulla qualità della democrazia in Corea del Sud, dove, in base alla legge sulla sicurezza nazionale, si può finire in carcere per aver diffuso notizie o informazioni considerate propaganda filo-nordcoreana e si rischia anche condividendo online materiale considerato tale.
Una situazione che ostacola il lavoro dei movimenti progressisti, spesso accusati di simpatie per il Nord. Di contro, il caso Lee mette anche in risalto le ambiguità della sinistra sudcoreana nell’atteggiamento da tenere verso le violazioni dei diritti umani e lo stile di governo di Pyongyang, la cui leadership ieri è stata esplicitamente accusata dalle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità.
Lo stesso Lee in passato fu condannato a due anni e mezzo di carcere perché accusato di far parte di una organizzazione filo-nordcoreana ed è stato al centro di polemiche per essersi rifiutato di cantare l‘inno nazionale, sostenendo di non riconoscerlo come l’inno di tutta la Corea. Il processo è tuttavia considerato da molti una caccia alla streghe, che si lega a un altro procedimento in corso per arrivare alla messa al bando del Partito progressista unito. Per i critici tutta la vicenda nasconde la volontà di sviare l’attenzione dallo scandalo che ha investito i servizi di sicurezza, accusati di interferenze nelle presidenziali di dicembre 2012 e di aver messo in piedi una campagna per screditare i candidati dell’opposizione, orientando gli elettori verso la candidata conservatrice Park Geun-hye, alla fine uscita vincitrice dalle urne.
di Sebastiano Carboni