Riuscire da soli a produrre più della metà della corruzione del continente Europa non è cosa da poco. Ci siamo coinvolti tutti: per quanto ricchi e potenti, non possono essere solo dieci o venti o anche mille persone a produrre in Italia sessanta miliardi di euro di pratiche corruttive. La corruzione che mobilizza la parte più consistente dei 60 miliardi, è certamente quella che si insedia nell’ambito dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata e che consiste nell’allocare le risorse pubbliche (che per definizione appartengono a tutti i cittadini) in modi tali che esse siano impiegate prioritariamente e a volte esclusivamente per soddisfare richieste private, al soddisfacimento delle quali non è stata riconosciuta pubblicamente nessuna utilità collettiva.
Questa definizione si adatta a processi corruttivi di ogni tipo e dimensione: si va dai grandi appalti nel campo delle opere pubbliche, dei servizi e delle forniture allo Stato alle autorizzazioni a costruire e a inquinare, alla corruzione di parlamentari (che vendono a un privato la loro carica pubblica) fino ad arrivare via via a quella piccola corruzione quotidiana nella quale ognuno di noi si è imbattuto almeno una volta nella sua vita: multe cancellate, pratiche accelerate, permessi accordati, passaporti e certificati velocemente rilasciati da compiacenti uffici: e la compiacenza non è gratuita. C’è la riapertura dei termini e c’è la mancata o benevola verifica dei requisiti; ci sono le spese personali scaricate sui fondi pubblici. L’elenco è inesauribile. E si allarga ulteriormente se includiamo tutte le voci relative allo scambio di favori e alle raccomandazioni, che per non implicare un diretto scambio tra denaro e prestazione, non sono per questo meno corrotte e corruttrici. Dato che c’è sempre una restituzione del favore.
Per gli italiani la corruzione è un modello culturale, che ci plasma e a cui ci ispiriamo: non è né una colpa né un peccato, ma uno dei modi, forse il più efficace, di venire a capo delle difficoltà della vita. Un modo astuto, che richiede abilità. Chi corrompendo e facendosi corrompere ottiene quello che vuole, è un ‘dritto’. Tuttavia, poiché sembra che fuori dei confini nazionali questa pratica non sia tanto apprezzata, e talvolta anche dentro i confini nazionali c’è qualche seccatore che ne vuole fare un capo d’accusa, allora è bene precisare che corruzione è sempre quella degli altri. Quella che pratico io (il soggetto che parla) è un’altra cosa: scambio di cortesie, transazione d’affari, gentilezza altrui fattami a mia insaputa, contributo volontario a nobili cause, persino, abbiamo appreso, atto umanitario.
Ci troviamo a questo punto di fronte ad uno degli effetti più devastanti della corruzione diffusa. In uno Stato di diritto corrompere o essere corrotti significa sempre e comunque fare una duplice esperienza: le leggi si possono violare perché, a saperlo fare, si guadagna un vantaggio differenziale rispetto a chi non le viola; le leggi sono inutili e dannose pastoie, perditempo per chi ci crede. Questo insieme di comportamenti e di idee distrugge progressivamente il prestigio delle istituzioni e la capacità dei cittadini di essere mentalmente onesti. Si impara a chiamare sistematicamente le cose con un altro nome, a camuffarle nella misura in cui non si possono occultare, a lasciare che siano trasparenti solo nella misura in cui la loro visibilità non nuoce ai propri interessi. La corruzione porta con sé omertà, ricerca di protezioni autorevoli, spesso il ricatto incrociato.
Questo processo non è certo nuovo. Se ne può fare una storia che va indietro di diversi secoli e non riguarda solo l’Italia. Ma anche da questo punto di vista l’Italia ha un primato. Il ventennio berlusconiano ha contribuito in misura eccezionale alla sua conquista; la crisi di governo in atto rappresenta senza dubbio un ulteriore progresso. Il perseguimento del proprio obbiettivo ha giustificato menzogne, tranelli, inganni; violenza verbale e prevaricazione; messa fuori uso, senza alcuno scrupolo, di tutte le norme procedurali pensate in altri tempi per garantire un minimo di correttezza e di trasparenza nelle transazioni politiche. Infine il trasformismo continuo.
Tutto questo ha suscitato proteste solo di una minoranza; la maggioranza degli italiani, si dice, sarebbe invece sedotta da questo modo di far politica. A quanto pare (e mi auguro di avere torto marcio) la corruzione non è più solo relativa al portafoglio: è una forma mentis e un ethos. Che è come dire che la cultura nazionale è permeata di cinismo.