Quando si sono formati nel lontano 2003, i JoyCut, band con origini lucane ma di stanza a Bologna, lavoravano innanzitutto di fantasia. E questa, a volte, ha dei momenti in cui permette di far conoscere a fondo il significato di “infinito”. Come capitato a loro. Quattro ragazzi, coetanei, capaci di trovare la loro strada, individuando nella libera espressività riformatrice e progressista quella chiave di comprensione rivoluzionaria della realtà. Con un nome derivato dall’idea di congiungere – concettualmente – concetti che si legassero alle lettere J e C, quindi Joy da Joey traccia di A Time of No Reply di Nick Drake e Cut da The Final Cut, opera definitiva a cura di Roger Waters per i Pink Floyd, i JoyCut sono stati definiti esponenti del Rock Sincretico Suburbano prima, EcoWave poi.
Ma in fin dei conti il loro è solo Dark & Roll. Oggi, a distanza di tempo, la band vive una dimensione snella e versatile, frutto di una naturale propensione alla semplificazione. Una vera e propria “riduzione” elastica, estensiva, dinamica, che tocca molti aspetti e non poche istanze di scelta: la strumentazione, i codici sonori, l’habitus interpretativo, l’attenzione per i consumi e gli sprechi. Via il cantato, spazio alle sperimentazioni sonore. L’ultimo disco intitolato PiecesOfUsWereLeftOnTheGround (Irma Records), è la narrazione conclusiva di una treelogia, annunciata in TheVeryStrangeTaleOfMr.Man e proseguita con GhostTreesWhereToDisappear. In questo nuovo lavoro, anziché raccontare la realtà attraverso le parole, lo fanno in modo più suggestivo attraverso l’uso spasmodico del suono: il risultato è un album strumentale e più elettronico del passato, molto apprezzato oltreconfine: dal 21 febbraio, infatti, i JoyCut saranno impegnati in un fitto tour fra East e West Coast degli Stati Uniti con tappa al Sxsw Festival di Austin. Senza limiti. Infiniti. Ma andiamo a conoscerli più a fondo.
Mi parlate di voi e del vostro background artistico?
Siamo prima di tutto individui, legati alle proprie singolari visioni del mondo, del tutto personali pertanto discutibili, dissimili nella forma e nella sostanza ma in continua perfettibilità evolutiva. Ci lega questo comune fil rouge che tesse insieme la New Wave-anni 80 della MadChester di Tony Wilson con la fotografia multiforme di Anthony Goicolea, le illustrazioni di Chris Haughton e l’opera The Afronauts di Christina De Middel, il Miskang occidentale di Brian Sano con l’esplorazione socio-narrativa dello stencil di Shepard Fairey, C215, Banksy. Siamo amanti della Poligamia Culturale, del viaggio come metafora della condivisione e del confronto. Quando si incontrano due persone si incontrano due storie e a noi le storie piace raccontarle, investigandone condizioni, luoghi e non luoghi.
Quando avete deciso di metter su la band?
Non c’è mai stata l’ingenua illusione di poter tirar su una band come si deve. Piuttosto un The Rotters’ Club. Un progetto dalle affinità elettive, una piattaforma di energia e di sviluppo creativo, una “messa in scena” arrogante e minuziosa che potesse ribadire il discorso di Enrico V nel giorno di San Crispino! Personalmente allora eravamo troppo disincantati, dalla caducità dell’amore, della vanagloria del sentimentalismo legato all’irreversibilità del “per sempre” per credere alle favole divorate voracemente sulle riviste di settore d’oltremanica. Sapevamo che non era già più il tempo di perseverare nella speranza poetica. Credevamo con imponderabile presunzione che l’idea di “gruppo” fosse irrealizzabile, qui. Era solo un Mythos vendutoci a buon mercato dalla Sovrastruttura. Ciononostante l’avventura ha preso forma; sotto le spoglie di un annuncio, affisso sulle pareti di Underground a Bologna, negozio di dischi che non c’è più. Erano tempi della specializzazione post-universitaria, battuti dal rigore metodologico e da una spiccata considerazione del futuro.
Come definite la vostra musica?
Siamo stati definiti portavoce del Rock Sincretico Suburbano all’indomani della pubblicazione di TheVeryStrangeTaleOfMr.Man. La band EcoWave per eccellenza successivamente all’uscita di GhostTreesWhereToDisappear. Si è letto da qualche parte, investigando i feedback dell’ultima ora, che questo nostro ultimo lavoro inaugura una inedita frontiera di genere: il Dark & Roll. La qual cosa ci sospende, ci spiazza da un lato ma ci gratifica dall’altro. È appagante constatare che vi sia un interesse vero, autentico, mai ordinario né superficiale nei nostri confronti.
Come siete arrivati a ottenere di fare un tour negli States?
Come spesso abbiamo ribadito, JoyCut sta guadagnando molta esterofilia, alto volume di interesse e una vera e propria approvazione. All’estero pare che gli specialisti e gli appassionati non parteggino per questa o quella contrada. Non confondano nepotismo con classe e qualità. Ti ‘ascoltano’. Si aprono al ‘diverso’. Hanno lasciato che il Malleus Maleficarum bruciasse, già da un po’. Si incuriosiscono del tuo progetto per quello che è capace di ‘di-mostrare’ e ‘trasmettere’. Sono interessati a ciò che proponi, a come lo sottoponi a giudizio critico. Le modalità comportamentali, le naturali inclinazioni caratteriali di cui disponi. Ovviamente il residuo positivo lo raccolgono dal palco e dall’autenticità viva delle esecuzioni. Ed è così che abbiamo incontrato l’approvazione di Andrew Miller. Sul campo. Suonavamo al Matchless, a Brooklyn. Lui ci ha avvicinati, si è realmente interessato al nostro progetto, lo ha dimostrato con i fatti, nel tempo, attraverso una cura scrupolosa del rapporto a distanza. Alla fine ha mantenuto ciò che aveva promesso. Una stretta di mano. Professionalità, passione, dedizione, orgoglio per la nostra tenacia. E ci siamo arrivati (negli States).
Cosa significa per voi potervi esibire oltreconfine?
Non cambierà certo l’approccio emotivo. Si sa, quando suoni, suoni. Non dai mai soltanto quello che puoi… ma tutto quello che hai! Ovunque tu sia, davanti a chiunque tu sia. Sempre. La dimensione dell’oltreconfine probabilmente esalterà ancora di più quelle sfumature ‘rabbiose’ caratteristiche della nostra sfera caratteriale. Oserei dire, un po’ come quando vediamo le squadre meno blasonate giocare partite di Champions League contro le grandi. C’è poi sicuramente la poesia della scoperta, la voglia e l’adrenalina di consumare uno spirito agonistico inedito, la sorpresa autentica e ineffabile dei luoghi nuovi, l’adeguamento percettivo, l’apertura ai cibi, alle diverse tradizioni. Mille altre band con le quali misurarsi e collaborare.
Non mi resta che farvi un grosso in bocca al lupo!
Lontani dall’Italia promuoveremo il nostro modo di essere alla nostra maniera. Identificandoci al 100% con i contenuti che proporremo. Sarà una bellissima prova. Una rara fortuna. Un viaggio in un acceleratore di particelle, che speriamo ci restituisca tutta l’adolescenza “perduta”, in attesa di una opportunità “vera”, che qui “a casa” finora ha sempre tardato ad arrivare.