La chemioterapia antineoplastica è tra le cure mediche più malviste dal pubblico: perché cura il cancro, la malattia che non si nomina e che fa paura; e perché è effettivamente alquanto tossica ed ha pesanti effetti collaterali. Sulla tossicità della chemioterapia c’è poco da dire: ha lo scopo di uccidere le cellule tumorali, e poiché queste sono, in fondo, cellule del malato non è possibile ottenere lo scopo senza uccidere anche un po’ di cellule sane. Il problema cruciale è se il costo, in termini di salute, valga il beneficio. Purtroppo valutare il beneficio della chemioterapia antineoplastica è facile solo in teoria: richiederebbe infatti di confrontare la prognosi del tumore non curato con quella del tumore curato e dimostrare che la seconda è migliore della prima. Ovviamente nessun medico può avere il coraggio di mantenere un gruppo di controllo, di pazienti non curati, al solo scopo di vedere come vanno a finire: uno studio del genere si può fare soltanto sull’animale da esperimento, che in genere ha una variabilità genetica limitata, e dà indicazioni rilevanti ma non sempre conclusive.

Una alternativa è quella di studiare il miglioramento delle statistiche di sopravvivenza ad una certa distanza di tempo dalla diagnosi: poiché la disponibilità di farmaci aumenta nel tempo, se la chemioterapia è efficace deve correlare con un aumento della sopravvivenza, anche se tutti i pazienti sono comunque trattati al meglio delle possibilità disponibili al momento della diagnosi. Questo è il caso, ad esempio del morbo di Hodgkin, una forma di tumore dei linfociti: secondo i dati di Cancer Research UK la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è passata dal 55% nel 1971-1975 ad oltre l’80% nel 2005-2009: le chemioterapie disponibili nel 1971 erano chiaramente meno efficaci di quelle disponibili nel 2009 (è possibile che una parte del miglioramento della prognosi sia però dovuto al fatto che anche le tecniche diagnostiche sono migliorate e consentono diagnosi più precoci). 

Il miglioramento della prognosi della leucemia linfoide acuta infantile è ancora più impressionante: la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è passata dal 10% degli anni ’60 all’84% degli anni ’90 ed è oggi superiore al 90%. E’ difficile attribuire questi risultati ad altro che al miglioramento delle chemioterapie: infatti, queste malattie non sono operabili ed hanno un decorso rapido, a causa del quale la diagnosi non è mai veramente precoce. I tumori di tessuti diversi da quello emopoietico mostrano andamenti meno esaltanti, ma non dissimili: ad esempio la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi di neoplasia del polmone è aumentata “soltanto” dal 15% degli anni ’70 all’attuale 30%, e questo nonostante il fatto che vi sono stati miglioramenti non solo nella chemioterapia ma anche nella diagnostica e nelle tecniche chirurgiche e radioterapeutiche.

Il tumore non è una malattia che noi possiamo vincere o eradicare, come il vaiolo o la poliomielite: rimane la terza causa di morte su scala mondiale dopo le malattie cardiovascolari e quelle infettive e parassitarie; nei paesi avanzati è la seconda. E’ una malattia dell’età adulta ed anziana, la cui incidenza statistica cresce al crescere dell’età media della popolazione. Nonostante questo tutte le statistiche indicano che la nostra capacità di controllare la progressione dei tumori con la chemioterapia aumenta costantemente grazie alla ricerca e all’introduzione nella clinica di nuovi farmaci e di terapie meglio selezionate su base genetica per ciascun paziente. Non è poco.

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