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Università, l’orgia degli eterni baroni

Non avrei voluto tediare i lettori del mio blog con una vicenda personale. Ma, dopo gli articoli di Carlo Di Foggia e Francesco Ridolfi sui pasticci del concorso nazionale per l’abilitazione alla docenza universitaria, penso che anche quello che sto per raccontarvi possa essere interessante. Dunque, ho partecipato a questo concorso per la prima fascia nel settore delle discipline di cinema, fotografia, televisione, teatro e sono risultato non idoneo. Non che la cosa mi abbia turbato più di tanto. L’eventuale passaggio alla prima fascia era per me un po’ uno sfizio, essendo da anni tranquillamente sistemato nella comoda e per nulla disdicevole seconda fascia, dove posso insegnare i contenuti che ritengo opportuni, nei modi che ritengo opportuni, rinunciando, senza troppi rimpianti, alle insegne, ai privilegi e anche ai molti oneri propri dei vertici del potere accademico. Ma dopo aver saputo della mia bocciatura, anche su suggerimento di alcuni colleghi amici che si manifestavano sorpresi e un po’ scandalizzati, sono andato a leggere le motivazioni della sentenza, i giudizi dei 5 commissari e la loro sintesi finale che valutavano criticamente i miei titoli, ritenendoli insufficienti. E qui davvero ci sono cose che vale la pena di raccontare, alcune comiche, altre tragiche.

Cominciamo dalle prime. Sembra serpeggiare, tra i membri della commissione, un po’ di distrazione, visto che si sottolinea la mancanza nei miei titoli di pubblicazioni in lingua straniera, mentre c’è un saggio (a me sembrava anche piuttosto interessante) in inglese. Ma si sa: se, come dicevano i latini, talvolta dormicchia anche il grande Omero, figuriamoci quanto è comprensibile l’appisolarsi di un commissario costretto a leggere migliaia di pagine. Il quale, però, al suo risveglio, si lancia in giudizi un po’ avventati: non solo gli piacciono poco i miei scritti, ma ha da ridire anche sugli editori, che giudica mediocri. E pensare che il mio ultimo libro è uscito da Bruno Mondadori, che tutti considerano editore prestigioso, rigoroso e molto ambito dagli autori di saggistica. Insomma un giudizio che assomiglia a quello che, con un francesismo molto usato alla Sorbona, si dice pisciare fuori dal vaso.

Ma quello che più colpisce in questi giudizi è la loro uniformità. Non solo i commissari si dicono tutti e cinque convinti dell’insufficienza dei miei titoli, ma lo fanno usando lo stesso stile, la stessa prosa, stesse parole, stessa sintassi e stessa retorica. Più che un’unanimità, una profonda sintonia, come dice Renzi dopo aver incontrato Berlusconi, una corrispondenza di sensibilità, un’affinità elettiva che appartiene, di solito, all’esperienza amorosa, alla fase dell’innamoramento. Un vero peccato vederla sprecata in una banale vicenda concorsuale. A meno che, invece che nascere da così nobili sentimenti, tutto ciò non sia il frutto di un volgare lavoro di copia e incolla, a cui io però non voglio pensare. Cioè che la commissione prima decide idonei e non idonei in base alle solite logiche di appartenenza, di lottizzazione, di baronie e di scambi e poi accrocchia dei giudizi che uno, un vecchio lupo dei concorsi, traccia e gli altri copiano. Mi è tornato alla mente, leggendo i giudizi, una sequenza di un celebre film di Costa-Gavras, di tanti anni fa, sulla nascita della dittatura greca dei colonnelli, Z L’orgia del potere, dove un giudice valoroso si accorge che le autorità vogliono far passare per incidente stradale un omicidio politico (quello di Lambrakis), quando nota che tutti i testimoni, imbeccati dalla polizia, usano la stessa frase: “agile e veloce come una tigre”. Ma, nel caso del concorso, è solo un’ipotesi per assurdo: come si può immaginare che illustri studiosi, chiamati a leggere e valutare l’altrui produzione scientifica, non trovino il modo di esprimere pareri autonomi e replichino tutti lo stesso giudizio, come studentelli sorpresi a copiare?

Ma basta scherzare. Veniamo agli aspetti più seri della faccenda. Ruotano tutti attorno a una frase che riferendosi alla mia produzione scientifica la definisce discreta, ma – cito testualmente – “più sul piano della presenza nel dibattito pubblico che nella ricerca scientifica”. Ecco, qui sta il vero, tragico nodo della questione. Considerare il valore di una serie di studi nel dibattito pubblico come se fosse in contrapposizione alla cosiddetta ricerca scientifica (in un settore, poi, come quello in cui io lavoro, quello della comunicazione di massa!), significa rivelare una ben strana visione dell’università e della funzione che essa svolge. Una visione dell’università come corpo separato, con delle sue logiche, delle sue gerarchie di valori del tutto estranee alla società civile, una visione dell’università di stampo puramente accademico, nel senso deteriore dell’aggettivo. E questo è davvero un bel guaio, non tanto per me, ma per l’università e la cosiddetta ricerca scientifica. 

Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2014