Pristina – L’inno nazionale ha una melodia ma non un testo, per evitare che riferimenti etnici e parole possano finire per intaccare una delicata fase di transizione. Il prefisso per la telefonia mobile è ancora quello di Monaco di Baviera, e solo un mese fa Facebook ha aggiunto la localizzazione esatta di chi si connette. Queste limitazioni sono però viste solo come simboliche ormai dal popolo kosovaro, deciso com’è ad andare avanti e affermarsi sempre di più sullo scenario internazionale come nazione. Determinato ad accelerare nella costruzione di un Paese europeo che possa puntare nel minor tempo possibile all’integrazione con l’Ue e alla partecipazione militare alla Nato.
Anche per questo le parate del 17 febbraio a Pristina sono state fastose, e le autorità compatte nel festeggiare il sesto anniversario di indipendenza di un Paese che è riconosciuto come tale solo da 106 nazioni dell’assemblea generale dell’Onu. Non da Cina, Russia, cinque membri dell’Ue e ovviamente dalla Serbia, dalla quale tenta di separarsi. All’ottimismo espresso da presidentessa e primo ministro nel corso delle celebrazioni a Pristina si è aggiunta anche l’approvazione e l’incoraggiamento del presidente statunitense Barack Obama attraverso l’ambasciatrice Usa in Kosovo, e della forza multinazionale della Nato Kfor, attualmente guidata dal generale italiano Salvatore Farina.
La questione del riconoscimento resta però ancora molto complessa per la difficile gestione di un processo dopo 15 anni di missione straniera per favorire l’autodeterminazione del popolo albanese di Kosovo. Anche nel giorno dell’indipendenza infatti la Serbia si è mostrata intransigente, affermando ancora una volta che “il Kosovo è serbo”. Nonostante questo molti analisti ritengono che la Serbia sia decisa a risolvere la faccenda Kosovo, accondiscendendo in un modo o nell’altro alle richieste dell’Europa che ha subordinato l’ingresso del Paese ex Jugoslavo in Ue proprio al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Un obiettivo non facile dato che il progetto abortito della Grande Serbia del criminale di guerra Milosevic, vede in Kosovo una ferita ancora aperta, segno più fresco della devastazione dei balcani degli anni ‘90. Il desiderio di superare quella pagina in un’area che è stata sempre una regione autonoma della Serbia a maggioranza albanese, ora alla prova dell’affermazione come Stato, è forte. Rimarcando l’origine etnica albanese Pristina vuole andare avanti con un percorso che la comunità internazionale, e in realtà la stessa Serbia, pare avere ben chiaro nelle prospettive già dal ’99 quando in maniera massiva la Nato intervenne a fianco dei kosovari.
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E se le questioni politiche e internazionali sono complesse, le resistenze dal basso tra le popolazioni non sono certo da meno. L’ostacolo più grande per la pacificazione definitiva è l’odio profondo tra serbi e albanesi. Un odio che emerge ogni volta che si parla con gli uni o con gli altri, impegnati senza concedere margini di dialogo in uno scambio di accuse e responsabilità continue e in un revisionismo storico che vede una diversa interpretazione di ogni accadimento passato e presente. La Chiesa ortodossa serba gioca un ruolo fondamentale, sentendosi come braccata e minacciata di non poter sapere sul proprio territorio nazionale due importanti luoghi religiosi come il Patriarcato di Peç e il monastero di Decane, dove sono conservati i quattro tra i più importanti simboli storici e teologici della chiesa ortodossa serba. Ma molti escludono la religione come marca dello scontro. Certamente gli albanesi che questa distinzione non la fanno, sottolineando che di fede musulmana o cristiana, per i serbi sono sin dall’antichità come un popolo inferiore. E’ dunque quella etnica la principale ragione di instabilità. Sono tanti gli episodi che denotano tensione e astio tra le due etnie. Troppo vicino il ricordo delle violenze, della cancellazione delle autonomie e dell’imposizione delle leggi di Belgrado che nel ’91 hanno cercato di imporre un allontanamento degli albanesi, oltre 80% dei quali kosovari, dalle proprie case, ammazzando e imprigionando i ribelli e contrastando il movimento Uck nato dopo anni di soprusi. All’ordine del giorno episodi contro i serbi nelle varie enclave del Paese dove le comunità vivono in piccoli villaggi, spesso nell’area sudovest, isolati in mezzo al territorio a stragrande maggioranza albanese. I serbi denunciano di essere discriminati e di essere vittime di attentati contro le proprie case. Gli albanesi dal canto loro accusano i serbi di voler creare un clima di tensione.
E’ evidente che in questa fase siano i serbi quelli in minoranza. Visti i numeri, gli albanesi si fanno forti del fatto di essere maggioranza schiacciante nel Paese, oltre che dell’appoggio quasi incondizionato degli Stati Uniti e della e truppe multinazionali di Kfor che rappresentano motivo di stabilità e sicurezza sul territorio per tutte le etnie kosovare. E’ da questa sorta di posizione di ‘superiorità’ politica e numerica che il Ministero per il Rientro ha elaborato un piano che prevede stanziamento di denaro e coordina gli aiuti provenienti da fondi esteri, soprattutto dall’Ue, destinati ai serbi (e alle altre etnie) che vogliano far rientro in Kosovo dopo essere andati via durante la guerra. Un modo per gli albanesi di manifestare di non avere nulla in contrario ad ospitare e tutelare la minoranza serba in Kosovo e di affermarsi come maggioranza.
Nel quotidiano però le distanze restano forti. Serbi e albanesi hanno scuole, ospedali, trasporti pubblici e informazione diverse. L’integrazione manca ed è poco ricercata da entrambe le parti in causa. I serbi che sono tornati in Kosovo continuano a non riconoscere questa regione come nazione e votano alle elezioni serbe. La città dove più visibile è questa divisione è quella più vicina alla Serbia, nel nord del Kosovo: Mitrovica. Sotto questo aspetto, indicativo è quanto sta accadendo per le elezioni municipali della città – 120mila abitanti, 80mila albanesi e 40mila serbi – divisa in due da un fiume dove le due etnie non si incontrano. Domenica i cittadini torneranno al voto per la quarta volta consecutiva nel giro di quattro mesi. E quello che verrà fuori dalle urne potrebbe anche modificare alcuni equilibri nazionali e accelerare o frenare l’indipendenza kosovara. Movimenti che molto dipenderanno dalle scelte fatte a Belgrado.
Twitter: @luigi_spera