Uno dei primi giornali a rivelarne l’esistenza è il Daily Mail nel 2008, quando sulle proprie pagine pubblica un intero servizio dedicato a quella che i medici definiscono nomofobia. Il termine è poco conosciuto e si riferisce alla paura compulsiva di rimanere senza telefono cellulare, di ritrovarsi improvvisamente isolati in una zona senza campo o di avere lo smartphone scarico senza una presa elettrica nei paraggi.
Insomma, più in generale è l’ansia di rimanere scollegati dal mondo esterno. È ovviamente una patologia circoscritta ad alcuni paesi del mondo, quelli più ricchi. E se è vero che solo 20 anni fa sarebbe stata impossibile da concepire per chiunque, oggi l’ossessione di perdere il proprio telefono e con lui tutto quello che di nostro custodisce non solo ha un nome, ma ha anche una fisionomia e una cura. Il primo studio che ha tentato di analizzarla e identificarne le caratteristiche è inglese e risale a 7 anni fa. In quell’anno, su 1000 persone intervistate, il 53% ammette di soffrire di questo disturbo. Percentuale che cresce di oltre dieci punti solo 4 anni dopo, arrivando al 66%. In Corea del Sud si arriva addirittura a stimare in oltre 2 milioni e mezzo i dipendenti dallo smartphone.
Sono quasi tutte persone comprese tra i 18 e i 24 anni, legate, secondo gli psicologi, da alcuni tratti comuni. Tra i comportamenti tipici c’è la resistenza a spegnere il cellulare: che si trovi seduto al cinema, in chiesa o nel mezzo di una lezione universitaria, il nomofobo non riesce a concepire l’idea di “sparire” anche solo per qualche minuto. Si sente perduto. Anche per questo, un viaggio in aereo può diventare insopportabile mano a mano che passano le ore. Tra i segnali d’allarme c’è anche la tendenza a portare il telefono sempre con sé, in ogni momento della giornata e in ogni luogo (persino in bagno), controllando ossessivamente messaggi, chiamate perse e posta elettronica.
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