Roberto Saviano confessa a El Pais che non gli è valsa la pena aver fatto tutto quel che ha fatto. “Una volta varate le vostre creazioni state pur certi che saranno rivolte contro di voi – aveva avvertito Henry Miller – sarete un’eccezione se non vi riuscirà di non essere sopraffatti e inghiottiti dai mostri che avete generato (…) il mondo che avete contribuito a fare vi reclamerà, non come arbitro o maestro, ma come vittima”.
Pur non avendo vissuto l’esperienza di Saviano, vivere sotto scorta 24 ore su 24, devo ammettere d’esser sempre riuscito a defilarmi di fronte alle pesantezze del successo, specie in un paese che tende a monumentalizzare l’incauto che lo ha conseguito, vuoi per amplificare la portata del proprio messaggio, vuoi, come nel caso di Saviano, per soddisfare la propria ambizione, come egli stesso ammette.
Avevo 28 anni quando il successo mi investì come una porta in faccia, in seguito a una ricerca sul campo nelle carceri italiane, poi stesa a quattro mani con un ex detenuto che si prestò in qualità di co-autore, che non vuol dire autore, senza sospettare in che ginepraio mi sarei andato a cacciare con l’uscita del tomo subito divenuto best seller.
I primi sintomi di disagio mi colsero nell’anfiteatro dell’università di Pisa o di Siena, non ricordo bene, dove mi ritrovai in un ambiente affollato di magistrati, vissuti come contro/parte della condizione carceraria che andavo denunciando. Il trauma fu tale che ridussi al minimo la frequenza di presentazioni e interviste e abbandonai l’Italia, lasciando la scena al co-autore che se ne impadronì approfittandone a piene mani. Il fatto che prima di partire, avessi rifiutato una cattedra di sociologia, consentì all’ex detenuto di ottenerla in mia vece & via discorrendo.
Negli anni che seguirono ebbi il merito e la fortuna di imbattermi ancora nel dannato successo, anche in ambiti diversi da quelli della sociologia, ma l’istinto di autodifesa e la coazione a ripetere mi indussero ad altri rifiuti, spingendomi a sparire e a eclissarmi in paesi lontani come il Brasile.
Elisabetta Ambrosi nel suo pezzo su il Fatto di ieri, commentando l’intervista di Saviano al quotidiano spagnolo, ritiene che lo scrittore “avrebbe potuto fare la stessa cosa (…) come hanno fatto tantissimi distrutti dalla notorietà, che hanno deciso di sparire, per un periodo o per sempre (chi non ricorda Salinger?) proprio per il legittimo desiderio di difendersi”. “Un Saviano meno mediaticamente celebrato consentirebbe a lui di riconquistarsi una vita – prosegue e conclude Ambrosi – e a noi di vedere i tanti Saviani di cui è disseminata l’Italia, perché è beato il paese che non ha bisogno di eroi”.
Dissento da quest’ultima affermazione innanzitutto perché, vista & considerata la sistematica fuga di cervelli, dubito che l’Italia sia ancora disseminata di tanti Saviani. Ritengo anche che le condizioni tutt’altro che beate in cui versa quest’ex bel paesino, richiedano l’avvento di autentici eroi, e Saviano, al di qua o al di là del suo appeal, fa parte della categoria. In secondo luogo perché l’imponente numero di ego (trippici) alla spasmodica ricerca di successo, spesso vincolato a propositi fine a se stessi, non sempre corrisponde alle doti e ai sacrifici che solo taluni individui esprimono e sono in grado di sopportare, magari addirittura immolandosi sull’altare del successo. Il quale se è relativamente facile da conseguire, è maledettamente difficile da reggere, come mi pare Saviano stia tentando di fare senza diventare una vittima.