Le mani della ’ndrangheta sulle slot machine. 29 arresti, 150 indagati, 120 perquisizioni, sequestri per 90 milioni di euro in tutto il Paese. La maxi-inchiesta della Direzione distrettuale antimafia della procura di Bologna e della Guardia di finanza ha portato oggi a smascherare una associazione a delinquere che truccava le macchinette del video poker in centinaia di bar d’Italia e che aveva messo in piedi un sistema di giochi online senza aver autorizzazioni. Per chi si metteva a intralciare gli affari c’erano le botte, le estorsioni e le minacce di morte. Per i giornalisti ‘gli spari i bocca’.
A capo dell’organizzazione che aveva base in provincia di Ravenna c’era Nicola Femia, boss della ’ndrangheta calabrese, prima affiliato ai Mazzafierro, poi capo di una sua personale cosca. Nel 2002, dopo una condanna a 23 anni per traffico di stupefacenti (non ancora definitiva), si trasferisce in Romagna. Ogni tanto sconta un po’ di carcere, ma quando è libero si occupa di mettere in piedi il nuovo business. Col proliferare del gioco d’azzardo infatti ‘Rocco’, come veniva chiamato Femia, comincia ad arricchirsi. Il giochino preferito è contraffare le schede gioco delle slot machine presenti nei bar in modo che le macchinette, collegate ai terminali dei monopoli di stato, dichiarassero importi minori. I guadagni sono milionari.
L’altro business era il gioco su internet, anche quello in Italia regolamentato da speciali autorizzazioni. Femia per questo registrava i suoi siti su server romeni o britannici, riuscendo quindi a ‘by-passare’ le regole più ferree del sistema italiano. Il problema è che chi poi doveva fare i controlli, spesso non faceva il suo dovere, anzi favoriva i criminali. Tra i 29 arrestati ci sono infatti un ex agente di Polizia, che quando era in servizio a Reggio Calabria informava Rocco e la sua banda delle indagini a loro carico. Poi c’era un sottufficiale della Guardia di Finanza di Lugo di Romagna che durante i controlli sulle macchinette all’interno dei locali pubblici, chiudeva un occhio per favorire la banda.
L’inchiesta della guardia di finanza era nata due anni fa dalla denuncia, l’unica spontanea in tutta questa vicenda , di un cittadino marocchino, immigrato in Italia, che dopo essere stato picchiato da uomini della banda di Rocco, inizia a parlare. È questa anche la vicenda che ha portato ala scorta per il giornalista della Gazzetta di Modena, Giovanni Tizian. “Se non sta zitto gli sparo in bocca”, dice il faccendiere Guido Torello a Rocco in una telefonata intercettata dalle Fiamme gialle. Il giornalista modenese si era infatti permesso di citare Femia nei suoi articoli, avvicinandolo proprio alla malavita che gestiva il gioco d’azzardo illegale.