Ha suscitato molto dibattito la recente frase di John Elkann riguardo l’atteggiamento dei giovani ragazzi italiani nei confronti del lavoro

Le reazioni sono state immediate, spesso con delle lettere aperte che hanno portato esempi di storie di ragazzi alla ricerca di un lavoro.

Vorrei proporre qui la risposta data alla lettera di Claudia Rizzo da parte di un ragazzo, che, raccontando la propria storia, ha apportato un punto di vista insolito sul tema delle possibilità e del riconoscimento dell’impegno nel nostro paese. 

Riporto sotto parte della risposta (qui la versione integrale)

“Cara Claudia, 
mi chiamo Davide, e voglio raccontarti la mia storia, che spero possa farti riflettere.

Intanto mi presento: ho 28 anni, e lavoro come consulente per una multinazionale. Prima ho lavorato per un Fondo di Investimento e per una società in Asia. Ho una Laurea in Management presa all’Università Bocconi e vivo a Milano. 

I miei non mi hanno dato la possibilità di studiare e di avere un piatto caldo a tavola mentre decidevo cosa fare della mia vita. Mia madre è una madre sola, con uno stipendio da insegnante, con 4 figli, separata. Il mio cognome sicuramente non è famoso, ed appartiene ad un pescatore sardo, purtroppo non della Costa Smeralda, che non ho neanche mai conosciuto.

Ciononostante, ho deciso di fare una facoltà difficilissima nell’università migliore d’Italia e mi sono iscritto a Ingegneria Aerospaziale, indirizzo Spazio, al Politecnico di Milano. I soldi per vivere me li ha dati lo Stato. Ho preso una borsa di studio statale per tutti i tre anni di università.

Dopo la Laurea ho deciso di vedere il mondo, così ho lavorato per 4 mesi facendo un lavoro dequalificante: fare dichiarazioni dei redditi. Ma avevo un obiettivo e volevo raggiungerlo. Certo, ho fatto sacrifici, ma ho messo da parte i soldi per pagarmi un biglietto sola andata per l’Australia e 3.000 euro nel conto, e sono partito.

Dopo un anno sono voluto tornare, perché l’Italia mi mancava troppo, perché in Australia puoi fare 300 dollari al giorno facendoti il mazzo, ma l’Italia è impagabile, per molte altre cose che si apprezzano solo andandosene via.

Ho deciso di cambiare, e fare la Laurea Specialistica in Management. Come al solito, ho puntato in alto. Non ho scelto di andare in un’università media in cui sarebbe stato facile entrare. Ho puntato alla migliore: l’Università Bocconi, una delle pochissime Università italiane conosciute all’estero, capace di offrire preparazione adeguata a competere con i colleghi internazionali.

Ovviamente non avevo soldi per pagarla, ma anche qua ho scoperto che lo Stato Italiano, come da costituzione, premia i meritevoli. Dovevo “solo” prendere un punteggio molto alto nel test d’ingresso internazionale, il GMAT. Un mese di clausura mi ha fatto avere il test sufficientemente alto per avere una borsa di studio ed entrare nel corso in cui volevo: EMIT, Economics and Management of Innovation and Technology. Tutto in inglese. 45% di studenti stranieri.

Perché si, cara Claudia, anche alla Bocconi, la famosa Università per figli dei ricchi in cui entrano solo i raccomandati, si può entrare per merito, ed esistono borse di studio che coprono oltre l’intero importo della retta. Questa è meritocrazia, ma tu forse avevi troppo da fare per informarti di queste cose.

Mancavano i soldi per vivere a Milano, una città cara (oddio, dopo aver vissuto a Sydney in realtà, neanche troppo). Ho chiesto ad una banca. Le “cattive” banche italiane hanno programmi specifici per studenti che frequentano università internazionalmente riconosciute: 25.000 euro di credito SENZA alcuna garanzia. Sono andato in una filiale, ho sorriso, ho inoltrato un reclamo nei confronti della prima impiegata per incompetenza, e la seconda in 20 minuti mi ha aperto il fido.

Il resto è storia. Esperienze di scambio in Asia, pagate con la borsa di studio, laureato con ottimi voti, assunto in Italia, successivamente in Thailandia, e ora lavoro di nuovo a Milano. In una nazione teoricamente in crisi, la mia ultima busta paga dice che prendo 3.400 euro al mese ad un anno dalla laurea.

Come è stato possibile tutto questo?

Semplice. La fondamentale differenza tra me e te, senza mezzi termini, è che tu hai il sedere pesante. Hai avuto sempre paura di rischiare, di andartene, di fare cose fuori dalla tua sfera di comfort. Hai sempre dato la colpa a qualcun altro per i tuoi fallimenti, e hai creduto di essere nel giusto quando lo facevi.

Sei uguale a molti miei coetanei che non trovano un lavoro. Pensate che migliaia di master inutili in università inutili seguiti da stage inutili fatti da persone che credono che l’istruzione sia un diritto, e non una conquista, sia abbastanza perché voi abbiate il diritto di lavorare per quelle stesse persone che poi disprezzate perché “imprenditori”. Non sapete neanche cosa significhi lavorare veramente, il vostro scopo è il lavoro da dipendente 9-17.

È facile lamentarsi ora, a 29 anni, ma avevi 29 anni per pensare che forse dovevi rischiare per ottenere qualcosa.

È facile parlare male di quelli che ti passano avanti, pensando che siano tutti raccomandati, quando invece forse hanno solo iniziato a costruirsi un futuro mentre tu dormivi a casa coccolata dai tuoi.

È facile pensare che tutto debba arrivarti senza sforzo solo perché fino ad ora è successo così.

E invece il mondo è un posto in cui se non strappi coi denti le cose, e non sei determinato, non ottieni nulla.

Le persone che tu accusi di essere raccomandate, spesso hanno esperienze estere nelle migliori università, hanno passato selezioni strettissime (credi davvero che JP Morgan a Londra o Goldman Sachs a NY quando devono decidere a chi far gestire fondi da 250 milioni, stiano a guardare il cognome famoso?) e lavorano ad un livello di competenza e precisione che tu, seduta in camera tua a casa dei tuoi, ad aspettare che qualcuno ti chiami, non riesci neanche ad immaginare.

Tu, e quelli come te, dovete capire che non esiste che qualcuno venga a salvarvi. Dovete spegnere il pc, fare la valigia, e andare. Dove, è irrilevante. Se siete intelligenti sarete in grado di cavarvela dovunque”.

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