In principio fu un italiano. “C’era un bando dell’università e avevo finito gli esami in anticipo. Non c’era un sistema, non avevamo internet, nulla. Dovevi fare tutto da solo: chiedere a un docente o a un’università straniera di ospitarti. Ma non sapevi come fare. Andai in biblioteca, presi alcuni libri di testo stranieri, a piè di pagina c’erano gli indirizzi degli atenei, mandai tre fax. Mi rispose l’università di Alicante, dissero che mi avrebbero ospitato. Dire che mi ha cambiato la vita è un eufemismo”. Nel 1987, Maurizio Oliviero non sapeva di essere un apripista, e che milioni di studenti lo avrebbero seguito. Nell’anno d’oro dell’integrazione europea, partecipò per primo a un’iniziativa sperimentale per la mobilità degli studenti, embrione di quello che sarebbe diventato il Socrates, poi integrato nel programma Erasmus. Da gennaio 2014, il programma si è evoluto con la nascita di “Erasmus Plus”, che ingloberà tutte le preesistenti iniziative per la mobilità europea, e si allargherà allo sport. L’obiettivo è raggiungere le 5 milioni di unità. I fondi stanziati ammontano a 14,7 miliardi di euro fino al 2020, il “40 per cento in più rispetto al passato”, ha spiegato la Commissione. I fondi sono aumentati soprattutto grazie agli accantonamenti riservati ad altri progetti. Ma difficilmente gli assegni mensili saliranno.

La genesi di un progetto che a oggi ha permesso a oltre tre milioni gli studenti un soggiorno-studio all’estero, è controversa. Se è certo che la paternità dell’idea appartiene all’associazione Agee-Europe, guidata dal francese Franck Biancheri, è pur vero che l’impulso fu italiano. Nella prima fase del Mercato comune europeo, un progetto avanzato dall’Italia (starting work) proponeva di far circolare i migliori giovani ricercatori in campo scientifico all’interno della nascente Unione. Affiancare al libero scambio delle merci anche quello degli studenti. Un’esperienza unica, divisa in due categorie, studio o lavoro (stage e tirocini), per un periodo da 3 a 12 mesi. Conoscendo sì e no qualche parola della lingua, a migliaia partono ogni anno verso i quattro angoli del continente. Ovunque, il punto di ritrovo è l’ufficio Erasmus, dove si presentano le domande e si assegnano le mete in base alle graduatorie. Media più alta ed esami in regola garantiscono i posti migliori. Una volta arrivati, occorre registrarsi all’ufficio, che spesso fornisce una lista di alloggi disponibili e un “welcome pack”, una guida con nomi, numeri e luoghi più interessanti. Se si è fortunati, nell’università ospitante è attiva un’associazione (la più famosa è la Erasmus student network) che guida i nuovi arrivati alle prese con un’esperienza totalmente inedita .

Nessuno di loro se la dimenticherà facilmente, tanto che crescono i lavori di ricerca sulla “sindrome post Erasmus”. Tornati a casa, tutto diventa noioso, troppo semplice e vuoto, perché manca la novità, la vera costante dell’erasmiano. “Rientrare è stato durissimo – spiega Elisabeth, studentessa francese di Nantes, ora a Parigi. Ho fatto quasi un anno a Palermo. La gente a Parigi non ha il calore degli italiani. Il mio ragazzo è siciliano, e sto facendo di tutto per tornare a vivere in Italia”. C’è chi è rimasto a vivere all’estero, e chi come Gianpaolo di Avezzano lo ha fatto due volte. Prima a Lille, poi a Bruxelles: “Mi sono sentito europeo, e mi sono anche divertito. In Francia ho anche conosciuto la mia ragazza, è olandese”.

Dopo 27 anni, i figli dell’Erasmus, tre generazioni di ragazzi tra i 18 e i 45 anni che a un certo punto della vita hanno fatto i bagagli e sono partiti, sono un piccolo Stato. Nel 2012, 252 mila studenti si sono mossi per l’Europa. L’Italia è al quarto posto (32 mila), dietro Francia, Germania e Spagna. Nel 1988 erano poco meno di 4 mila. L’obiettivo dei 3 milioni, è stato raggiunto lo scorso anno. Apparentemente un successo, eppure siamo ancora a una piccola minoranza rispetto al numero totale di studenti. Ogni anno in media, gli “erasmiani” si aggirano intorno a una percentuale che va dall’1 al 3 per cento. Nella primatista Spagna rappresentano l’1,8 per cento del totale; in Francia sono l’1,4; mentre l’Italia, dopo essere salita nel 2010 (1,3), nel 2012 è scesa all’1,1 per cento, qualche decimale sopra la Germania (1,1). Non è un mistero che le ambizioni non fossero queste. Una storia di successo lasciata a metà, specchio anche delle contraddizioni europee. “È l’unico progetto politico riuscito di integrazione, capace di costruire un concetto vero di cittadinanza europea – spiega Oliviero, ora docente di diritto pubblico all’Università di Perugia e ambasciatore italiano per la promozione dell’Erasmus – ma è incompleto e soffre terribilmente della carenza di risorse. Mi spiace dirlo, ma allo stato attuale rimane ancora un’esperienza riservata ad una ristretta minoranza, che se lo può permettere”. 

La distanza tra l’idea originale e i risultati ottenuti è un solco allargato di anno in anno dalla modesta dotazione finanziaria del progetto. Nel novembre 2012, il programma rischiò di essere la prima vittima dei veti incrociati in fase di approvazione del bilancio. In discussione c’erano 10 miliardi euro, ma solo 90 milioni erano destinati a pagare le fatture già emesse per il programma Erasmus di quell’anno. Spiccioli necessari a garantire almeno l’erogazione delle borse comunitarie. L’Erasmus rosicchia gli avanzi del bilancio, concentrato sui fondi per l’agricoltura (40 per cento) e le aree arretrate (30). In media la dotazione è di 400 milioni di euro l’anno (nel 2013 all’Italia sono andati 41 milioni). Di conseguenza le borse restano basse. Funziona così: una parte la mette l’Ue (circa 250 euro al mese, 230 in Italia), i singoli stati integrano poi le risorse (in Italia la media è 200 euro). Nel novembre scorso, in Spagna, il ministro dell’Istruzione Josè Ignacio Wert ha tentato di ritirare (o meglio “concentrare”) il supporto economico statale agli erasmus non esentati dal pagamento delle tasse universitarie. In pratica, si concentravano le risorse sulle fasce di reddito più basse, di fatto già tagliate fuori per i costi non sostenibili. Così circa il 70 per cento degli erasmus spagnoli si sarebbe ritrovato improvvisamente senza la quota statale. “Già i soldi sono pochi e senza l’aiuto da casa non ce la fai, poi te li danno quasi sempre quando sei rientrato – spiega Imanol, studente spagnolo di San Sebastian, per lui 6 mesi a Foggia – Così facendo, una volta a casa, ti dicevano che non ti spettava nulla”. Proprio dagli studenti erasmsus a Foggia è partita una petizione per protestare contro il governo di Madrid. Dopo le migliaia di adesioni e l’attenzione dei media nazionali, un gruppo di tre ragazzi (Iñaki, Fernando e German) ha costretto il ministro a ripensarci. Anche in Francia i soldi sono pochi. “Ho preso 1100 euro per un anno, senza l’aiuto dei miei genitori, non sarei mai partita”, spiega Elizabeth. E così è in tutti i paesi. Ma è anche un investimento. Studi e ricerche certificano che in media gli Erasmus trovano impiego più facilmente e accedono al mercato del lavoro con salari più alti.

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Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 17 febbraio 2014

(Foto Lapresse, Università Sorbonne di Parigi)

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