Commentando la nomina di Massimo Bray a Ministro per i Beni culturali scrivevo su questo blog: «Salvatore Settis ha scritto che una serie di ministri per i Beni culturali come Sandro Bondi, Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi, “fosse stata a Firenze nel Quattrocento, sarebbe riuscita a insabbiare il Rinascimento”. Ce la farà ora il non molto noto Massimo Bray a invertire questa tragicomica tendenza?». E il mio post proseguiva con un certo pessimismo.
Ma oggi, a dieci mesi di distanza, bisogna riconoscere che il bilancio del Bray ministro del patrimonio culturale è largamente positivo.
Il maggior risultato di Bray è stato proprio quello di invertire la tendenza. Egli ha saputo parlare al Paese come nessuno dei suoi predecessori ha mai nemmeno provato a fare. Ha saputo parlare del patrimonio con il vocabolario della Costituzione: cioè non in termini di ‘petrolio’, ‘profitto’ e ‘valorizzazione’, ma di ‘cittadinanza’, ‘comunità’, ‘conoscenza’. In questo modo Bray ha tentato, e con successo, di ridare dignità a un mondo-quello della tutela del patrimonio–umiliato, delegittimato, marginalizzato.
E gli italiani hanno capito: tutti gli ultimi occupanti del Collegio Romano sono stati cacciati a furor di popolo, inseguiti con i forconi di roventi contestazioni, mentre ieri-un’ora prima che Renzi salisse al Quirinale con il suo compitino-l’Ansa dava notizia che 180.000 persone chiedevano, sui social networks, che Bray rimanesse al suo posto. In quest’ultima settimana ci sono stati 400 diversi appelli a suo favore, e i sondaggi hanno rilevato che proprio a lui andava il gradimento più alto tra i ministri di Letta. E questo non si deve solo alla capacità comunicativa (antitelevisiva, ma efficacissima) di Bray, ma soprattutto ad alcuni importanti risultati concreti. Egli è riuscito ad evitare che Pompei finisse in mani inaffidabili e pericolose, trovando e imponendo una soluzione eccellente; ha rimesso in piedi e riesposto i Bronzi di Riace; ha mantenuto la promessa di ricomprare la Reggia di Carditello, e si potrebbe continuare a lungo.
Certo, Bray avrebbe potuto osare di più. Ogni volta che annunciava qualche cambiamento radicale – per esempio nella struttura del ministero-si sollevava un coro di «non si può!». Un capo di gabinetto prudente fino al letargo, un segretario generale garante dell’immobilismo assoluto, una pletora di direttori generali preoccupati solo della loro poltrona: tutto ha congiurato nell’inibire ogni tentativo di spiccare il volo.
E quando Bray ha provato ad andare al cuore del problema, rimuovendo questi stessi signori, da Palazzo Chigi partiva l’allarme rosso sui possibili ricorsi. L’esperienza di Bray-cioè del primo ministro davvero deciso a cambiare i Beni culturali-dimostra che la prima cosa di cui ha bisogno il nostro disgraziato patrimonio è proprio uno spietato azzeramento del quartier generale, la cui unica missione è oggi la conservazione di se stesso.
Anche nella riorganizzazione del Mibac la struttura è in buona misura riuscita ad impedire a Bray di concretizzare le proposte formulate dalla commissione D’Alberti (della quale faceva parte anche chi scrive). Questa debolezza ha favorito la saldatura tra l’ostruzionismo della dirigenza interna e le proteste dei settori più miopi degli operatori del settore. Un caso simbolo è stato quello del progetto, sacrosanto, di riunire paesaggio, beni artistici e beni archeologici sotto un’unica direzione, per la quale Bray ha tratto il titolo dall’articolo 9 della Costituzione: «Direzione per il Paesaggio e il Patrimonio storico e artistico». Solo l’elevatissimo grado di corporativismo che affligge l’archeologia italiana (e che si è contemporaneamente manifestato negli esiti largamente abbietti della abilitazione scientifica di quel settore) poteva contestare una simile scelta, rivoluzionaria fin dal nome.
Un nuovo mandato avrebbe probabilmente permesso a Bray di superare queste incertezze, consentendogli di avviare una riforma radicale. È per questo che in moltissimi avremmo voluto che rimanesse al suo posto: come oggi ha scritto benissimo Michele Serra sulla sua Amaca.
Ora, invece, si volta pagina. Matteo Renzi è il più incredibile portatore sano di cultura della politica italiana: nel senso che ne parla in continuazione senza esserne minimamente affetto. Renzi ha una visione ultraliberista della funzione del patrimonio culturale (ben riassunta nel suo slogan: «Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto»). D’altra parte, non è possibile indicare nemmeno vagamente quali tratti abbiano caratterizzato la sua politica culturale durante il mandato di sindaco (del tutto dimenticabili, infatti, i mandati dei due assessori Giuliano Da Empoli e Sergio Givone), perché c’è stato solo un martellante marketing il cui vero oggetto era la persona stessa del sindaco, mentre la ‘cultura’ era ridotta a veicolo di propaganda.
Coerentemente, da presidente del Consiglio non affida i Beni culturali a qualcuno che ne sappia qualcosa, ma li usa per saldare i debiti contratti durante la congiura contro Letta. E non importa se il neoministro Dario Franceschini è stato definito da Renzi stesso «un vicedisastro» (febbraio 2009). «In questi anni Franceschini è stato una delusione», continuava Renzi nella stessa intervista: il Patrimonio culturale sentitamente ringrazia.
Non resta che sperare che il neoministro faccia cambiare idea anche ai cittadini italiani. Per ora, l’unica cosa certa è che il sorriso e la tenacia di Massimo Bray ci mancheranno.