L’aereo decolla e sorvola la splendida Lisbona, sotto di noi l’ultimo scampolo di terra e poi via verso l’oceano senza fine che non ha mai fatto paura ai bastimenti che l’attraversarono col solo ausilio del sestante. Col naso schiacciato sull’oblò immagino storie di marinai fortunati e storie di naufragi, di uomini assetati di domini e di ricchezze, in balia delle onde per mesi e mesi. Le Azzorre, una manciata di terra che interrompono la grande distesa d’acqua dell’Atlantico, una sorta di ponte tra il vecchio e il nuovo continente, nove isole poste a 1400 chilometri dalla costa del Portogallo alle quali appartengono, e 3500 chilometri da quelle del nord America, isole di fuoco vento e solitudine: così le vide l’esploratore Goncalvo Cabral che per primo nel 1432 piantò la bandiera portoghese.
Io, arrivo sull’isola di Terceira in una giornata soleggiata e ventosa di primavera, la mia guida, Josè, mi aspetta per portarmi ad Angra do Heroismo (baia dell’eroismo) il capoluogo, chiamata così perché nel 1829 i suoi abitanti affrontarono con coraggio le feroci truppe dell’usurpatore Michele, ambizioso del trono.
Mi colpisce subito la bellezza del centro storico con le sue case colorate, addossate l’una all’altra, decorate con balconi in ferro battuto, diventate patrimonio mondiale Unesco nel 1983: straripano di luce anche per la concomitanza dei riflessi del mare, e la brezza, incanalata nelle viuzze strette e lastricate di basalto, mescola gli odori di cibi di terra e di mare.
Il piccolo porticciolo protetto dal possente monte Brasil, è dominato dalla chiesa blu della Misericordia, raggiungibile con una scenografica scalinata, intorno, le mura ingentilite da violacciocche, che racchiudono il borgo.
Decido con Josè di fare un giro sul monte Brasil, un panettone verde che domina la città, e rappresenta un polmone verde e zona di svago per gli abitanti, un luogo del silenzio dove si vedono persone venute fin qui per godersi la lettura di un libro o semplicemente per ritrovare la propria anima. Un sentiero ben segnalato permette di vedere la costa, forata da numerose grotte color rosso e giallo zolfo, a ricordarci la natura di fuoco che le ha generate, e le onde che si infrangono al tramonto, si impregnano di questi colori; un incanto. Ancora oggi il fuoco che ribolle la sotto, si rende visibile con geyser, fumarole, soffioni, e di tanto in tanto terremoti, come quello devastante che nel 1980 sconvolse Terceira e rase al suolo gran parte della città, provocando lutti e distruzione. “Secoli di isolamento e di lotte contro una natura aspra, hanno forgiato gli azzorriani rendendoli autonomi e coraggiosi” mi dice Josè. “Col duro lavoro e braccia forti, le isole, da deserto vulcanico sono state trasformate in campi fertili”. Lo si vede bene salendo a Serra do Cume, dove i campi ai lati della strada, verdissimi, sono delimitati da dedali di muretti a secco geometrici.
Da non perdere il belvedere, ben segnalato, una passerella spettacolare sospesa sulla immensa caldera di Terceira dove le nubi sospinte dal forte vento creano arabeschi d’ombre sui vasti pascoli.
Prossima meta è Agar do Carvao monumento regionale, che si trova a 550 metri di altezza, quasi sempre avvolta dalle nubi, un cono vulcanico vuoto che eruttò l’ultima volta 3200 anni fa. Prima di entrare nella galleria che porta al cono si può dare un’occhiata all’interessante centro visita che racconta, con dovizia di particolari, tutta la storia geologica delle Azzorre e del vulcano che andrò a visitare, formatosi per un complesso fenomeno geologico e per questo una struttura rara che la rende unica al mondo. L’ambiente molto umido e buio, mi accoglie con uno stillicidio abbondante che mette a dura prova la macchina fotografica, amorevolmente protetta sotto il mio impermeabile.
Una scalinata, scivolosa, rasenta le pareti del condotto vulcanico colonizzato da belle felci endemiche Trichomanes speciosum. Giù in fondo a 80 metri, la poca luce che entra dal cono illumina le acque limpide di un laghetto.
Riprendiamo la strada, poco battuta, che continua a salire fino ai settecento metri di quota, invasa ai lati da enormi cespugli di ortensie blu.
La nebbia fittissima, rende l’atmosfera da “Signore degli anelli”. Il clima mite e temperato grazie alla corrente del Golfo, le piogge distribuite tutto l’anno, brevi ma copiose, fanno crescere piante mediterranee e tropicali in perfetta armonia: platani e jacarande, bananeti e vigneti si alternano a piantagioni di the e tabacco. Ma è sui novecento metri che le foreste diventano un trionfo di alberi e foglie lussureggianti radicate in quello che in principio era fuoco ardente.
Negli ultimi chilometri prima dell aeroporto Josè mi fa visitare a Port Judeu un imperios, cappelletta votiva per devozione allo Spirito Santo, colorata, tipica di Terceira.
Trenta minuti di aereo, di quelli ad elica da mettere in moto a mano, e arrivo sull’isola di Faial che ha come capoluogo la cittadina di Horta, senza dubbio il miglior porto dell’arcipelago, un porto attrezzato per accogliere i coraggiosi navigatori solitari che qui attraccano con tanta salsedine sulla faccia e tante storie da raccontare, magari sorseggiando un ottimo gin nel bar Sport Peter, un’icona delle Azzorre.
Se non c’è folla vi consiglio di dare un’occhiata alla collezione di denti di capodoglio dipinti al secondo piano del bar, meglio, se disponibile, col proprietario, ottimo cicerone. “L’isola di Faial per la sua posizione geografica ha sempre rappresentato un crocevia per commerci e turismo e nel porticciolo resiste un’usanza ancora ben viva: tutti i velisti che fanno sosta qui lasciano un segno del loro passaggio, dipingendo un piccolo quadrato del molo impreziosendolo con colori e scene marine. Passeggiando non si vede più il cemento grigio ma centinaia di “opere” che sfidano il tempo e le mareggiate.
Seguendo la strada principale si arriva a Porto Pim, con le sue case sul mare impregnate ancora dell’odore dell’olio di balene che qui venivano lavorate, un luogo decantato dalle rime di Antonio Tabucchi “Donna di Porto Pim”, assiduo ospite di questi luoghi. “Prendi un’isola cristallizzata di lava, poi ammantala di foreste lussureggianti, colorala di azzurro con le ortensie e avrai ottenuto Faial” racconta Josè che nel frattempo mi sta portando al museo del vulcano Capelinho, noto alle cronache perché nel 1957 il mare cominciò a ribollire e a illuminarsi di fuoco. In poco tempo l’eruzione formò altra terra. Salgo su in cima sprofondando nella sabbia lavica, al lato sinistro la profonda caldera del vulcano, e mi rendo conto che così doveva essere il pianeta prima del nostro avvento e così sarà dopo. Un falco galleggia nell’aria sfruttando le forti correnti ascensionali, giù il faro seminascosto dalla foschia.
Intanto l’anticiclone delle Azzorre mi stava giocando un brutto scherzo: la pioggia insistente slavava tutto e anch’io stavo perdendo quel poco di colorito che avevo preso nei primi giorni. Il museo del Capelinho, nascosto sotto terra, è interessantissimo. La struttura avveniristica e le guide ben documentate mi scorrazzano per un’ora nel ventre del vulcano: termini come ossidiane, gallerie di scorrimento lavico, zone fessurali non hanno più segreti.
Alle 19:30 con Josè siamo pronti per imbarcarci sul traghetto che attraversa i sette chilometri che dividono Faial dall’isola di Pico, dominata dal vulcano omonimo alto 2320 metri, la cima più alta del Portogallo. Il faro di Horta sotto la pioggia, illumina la rotta che ci porterà al porticciolo di Madalena, capoluogo di Pico visibile in fondo con le luci già accese. Un faraglione appena visibile nel buio chiude la baia e si entra in porto, decine di gabbiani chiassosi sorvolano il traghetto, l’ultimo della giornata e ora si preparano per la notte.
A Madalena, un grumo di case concentrata attorno alla chiesa passeremo qualche giorno,. E’ sicuramente il miglior punto di partenza per conoscere l’isola. La mattina seguente, dopo un abbondante colazione a base di macedonia di frutta azzorriana affogata nell’ottimo yogurt locale, percorriamo la strada che dal paese si insinua tra vecchie colate laviche, con la macchia che alterna ad alberi di lauro. Le rocce, nere e lucide, si spingono in mare a sfidare le enormi onde atlantiche, il verde intenso delle vigne protette da muretti di basalto, e il mulino, in fondo, fanno da quinta a questo paesaggio che ha convinto l’Unesco a proteggerlo. Una freccia in legno screpolato indica il museo del vino, che visitiamo; bene in evidenza le migliori etichette isolane, mentre la pioggia incessante amplifica l’odore della terra fertile e delle piante aromatiche, e, come un telo, nasconde i contorni del vulcano.
E lassù, dopo qualche ora, Josè mi porta a vedere i piccoli laghi annidati alla base del cono, a 800 metri di quota avvolti nella nebbia. La strada, dritta come una riga sale con gradualità, tagliando in due, di tanto, villaggi silenziosi, mucche allo stato brado occupano la carreggiata rallentando la nostra salita al lago. Nel resto dei due giorni non riusciremo mai a vedere il vulcano, sempre avvolto da nubi, solo in volo, quando l’aereo che ci riporta a Terceira buca la coltre grigia ci appare in tutta la sua grandiosità. Andrà meglio la prossima volta.