È stato un momento, un momento preciso. Dieci secondi all’interno di cinque intere serate. In quei dieci secondi c’è tutta la differenza tra due mondi. Non una scala di valori coi buoni da una parte e i cattivi dall’altra; semplicemente una differenza incolmabile tra due intenzioni artistiche diverse.
È successo venerdì sera, quando Mauro Pagani – il direttore musicale del Festivàl! – è salito sul palco per premiare il miglior arrangiamento. Fazio apre la busta: il vincitore è Renzo Rubino. Panico. Non ha vinto per il brano che il televoto ha promosso, ma per quello bocciato.
Fazio è quasi incredulo, ripete due volte il verdetto, lo rilegge, si stropiccia gli occhi: è tutto vero.
Ora, Mauro Pagani è una delle massime garanzie di qualità musicale per quello che riguarda la canzone italiana, la popular music nostrana. Il verdetto è questo: le canzoni più belle, quelle che per gli esperti del settore risultano le migliori per qualità artistica, in genere non coincidono con quelle scelte dal televoto del Festivàl.
Perché? Lo dicevamo qui: il Festivàl rappresenta un genere preciso, il pop, pop italiano; un altro genere, altrettanto preciso, è la canzone d’autore. Perché ci sia il genere pop c’è bisogno di un’icona, cioè un qualcosa di immediatamente riconoscibile: l’icona pop del Festivàl è quel palco, cantare la propria canzone su quel palco; per dirla più estremamente, si canta quel palco e non la propria canzone. Rufus Wainwraight e Damien Rice, invece, arrivano e, dissacrando, rompono l’incantesimo perché non hanno una relazione culturale con quel palco; al contrario, Baglioni – straordinario artista, che però si porta dietro tutta la cultura italiota di cui questo genere è impregnato – su quel palco ha il fiatone, comunica poco altro se non la propria ansia da prestazione: combatte col contesto, con l’icona pop del Festival, che caratterizza il genere. Questo è il pop di Sanremo. Se lo si capisse fino in fondo, Sanremo sarebbe anche artisticamente valido, scientemente curato al fine di proteggere, arricchire e impreziosire quest’icona.
Per capirci meglio, Ligabue non ha celebrato quel palco. È andato a fare le sue canzoni, con lo sguardo fermo anche mentre il pubblico (beota) cercava di portare il ritmo battendo le mani su Il giorno di dolore che uno ha: lui fermo, concentrato sull’interpretazione e sulle canzoni.
La canzone d’autore è un genere completamente privo degli elementi descritti sopra per il pop, completamente privo di icone; è un genere in cui prevale la poetica, lo stile personale. L’attenzione è esclusivamente sulla canzone, è lei la protagonista, assieme all’interpretazione, al di là del suo rapporto con quel palco. Anzi: l’icona ne appesantisce – se non addirittura impedisce – la libertà espressiva.
Quindi cosa è successo in questi giorni?
Flashback: Fabio Fazio ha provato a far interagire, mischiandole, due realtà storicamente diverse. Secondo lui questa diversità non aveva oramai più senso (lo abbiamo visto qui) . Da qui è venuta l’idea, evidentemente sincera, di omaggiare il Club Tenco: avrebbe potuto tranquillamente non farlo, avrebbe rischiato meno e infatti nessuno nella storia l’aveva mai fatto prima. Il risultato di questo tentativo, in quei dieci secondi e per ben due volte con De André, lo ha smentito, ma aver tentato è stato candidamente rivoluzionario. E poi milioni di persone hanno sentito nominare il Club Tenco forse per la prima volta. Gliene va dato atto a livello mediatico, artistico e persino accademico.
Questi sono i fatti, al di là dello sport nazionale che oggi sembra essere quello di attaccare Fabio Fazio.
Ah… dimenticavo: la sessantaquattresima edizione del Festival di Sanremo è stata vinta da Arisa, ma mi sembra la notizia meno interessante dell’intera faccenda.