Una delle cose fondamentali che t’insegnano al primo anno d’Accademia, quando inizi ad approcciarti alla recitazione è sconfiggere la sindrome dell’amico del bar. La sindrome dell’amico del bar consiste in quell’insieme di ammicchi, sorrisi, auto denigrazioni con cui l’attore principiante interrompe la sua improvvisazione o il suo monologo, con la finalità di ottenere la benevolenza del pubblico.
Secondo un meccanismo psicologico molto semplice, questo atteggiamento tende a dissacrare quanto si sta facendo e a creare una complicità con i compagni (che in queste occasioni fanno da pubblico) che annulli la distanza tra chi è sopra e chi è sotto il palcoscenico: grazie alla sindrome dell’amico del bar, colui che si esibisce si rende immune al giudizio, in quanto non percepito come elemento esterno al gruppo, e scongiura così il rischio che la prestazione possa essere valutata seriamente.
Ciò che gli insegnanti si sbracciano a spiegare agli studenti che credono di aver trovato lo stratagemma per farla franca è che la sindrome dell’amico del bar è quanto di più lontano esista dal lavoro dell’attore, che ha invece come compito prioritario quello di calarsi completamente nel ruolo da interpretare, abbandonando tutte le contaminazioni col quotidiano; l’effetto collaterale della sindrome dell’amico del bar è una condanna all’amatorialità e al dilettantismo perpetuo, o per meglio dire al non essere presi sul serio dagli altri come risultante del non prendersi sul serio da soli.
Oggi, Matteo Renzi, con il suo discorso a Palazzo Madama, ci ha dato una dimostrazione pratica di come la sindrome dell’amico del bar sia riscontrabile anche in politica.
Il neo premier, essendosi dimenticato di passare in macelleria a comprare l’arrosto, ha riempito l’aula di fumo, ma nella paura che lo stratagemma dell’imbastita general-generica non gli valesse la fiducia, ha preferito schernirsi, ironizzare, ammiccare alle reazioni di Calderoli o promettere di volere tanto tanto bene ai deputati Cinque Stelle anche se loro saranno molto cattivi. Dopo aver aperto le danze citando la Cinquetti, dopo non aver spiegato (a differenza di quanto aveva promesso) come mai abbia disarcionato il governo Letta ma ribadendoci che Letta è tanto caro, dopo essersi sbizzarrito in tautologie demagogiche su sogni, obiettivi, concretezze e ideali, dopo aver attaccato il siluro più astratto del secolo sulla scuola, dopo aver scherzato sulla signora che lo ha fermato per dirgli che se il Presidente lo fa lui lo possono fare proprio tutti, dopo aver parlato di macchina pubblica che appesantisce e burocrazia da snellire senza accennare minimamente a come, dopo averci raccontato tutte le telefonate che ha fatto nelle ultime 24 ore, il nuovo Presidente del Consiglio deve essersi sentito tranquillo del non aver mostrato neanche un accenno di gravità ed autorevolezza che potessero far sentire ai signori sugli scranni la distanza dal palcoscenico e lo rendessero valutabile.
E’ mancato solo che li chiamasse per nome uno per uno (per un attimo lo abbiamo temuto); in compenso, però, il Presidente del bar ha tessuto l’encomio del compromesso, rassicurando la cosiddetta opposizione che ci si metterà d’accordo su tutto (su cosa però non ce lo ha detto) e ha messo bene in chiaro che un vero premier gli amici del bar non li dimentica.