L'inchiesta della procura di Caltanissetta, grazie alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, è arrivata a persone finora non toccate dai precedenti accertamenti. Per l'accusa l'attentato servì per aprire un dialogo tra Stato e mafia
Si avvicina un nuovo processo per la strage di Capaci del 23 maggio 1992 in cui morì il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre poliziotti della scorta. Il filone d’indagine aperto grazie al collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza è arrivato a una svolta: la procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, ha inviato nove avvisi di conclusione indagine. Oltre a Spatuzza, sono coinvolti Salvino Madonia, Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello e Cosimo D’Amato. Personaggi non coinvolti nelle indagini e nei processi che hanno portato in carcere il gotha di Cosa nostra.
L’accusa sostiene che l’attentato, ordinato da Totò Riina e dai vertici della “cupola”, mirava non solo a eliminare Falcone come un grande nemico di Cosa nostra ma perseguiva anche l’obiettivo di attaccare lo Stato. Alla stessa strategia criminale va ricondotta la strage di via D’Amelio nella quale, 55 giorni dopo Capaci, morì Paolo Borsellino, il 19 luglio 1992. Una strage quella di Capaci che, secondo i magistrati, serviva ad aprire un canale di dialogo tra lo Stato e Cosa nostra, ferita dalla sentenza della Cassazione che confermò l’impianto accusatorio del maxi processo e seppellì al carcere a vita capimafia e picciotti.
L’indagine dei magistrati nisseni ha ricostruito particolari rimasti oscuri in questi 24 anni. L’ordigno usato a Capaci sarebbe stato messo a disposizione da D’Amato che aveva ripescato due ordigni bellici con 200 chili di tritolo. L’esplosivo sarebbe stato consegnato a Lo Nigro perché, sotto la regia di Giuseppe Graviano (boss di Brancaccio e fedelissimo di Riina), fosse ridotto in polvere per il confezionamento di un nuovo micidiale ordigno. L’inchiesta, come ricostruisce oggi Il Giornale di Sicilia, ha messo in luce, grazie alle rivelazioni di Spatuzza e del collaboratore Fabio Tranchina, il ruolo centrale svolto dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, gli stessi artefici delle stragi che uccisero Borsellino e dilaniarono l’Italia, e che forse, scandirono il dialogo tra Stato e mafia.