Sarà stato detto e scritto molte volte ma, come si suol dire, repetita iuvant.
La maggior parte delle trasmissioni televisive che trattano temi femminili propongono quasi sempre un’immagine della donna legata a stereotipi obsoleti e a occupazioni e passatempi di tradizionale appannaggio femminile: tutorial in cui si insegna a cucinare e scodellare manicaretti oppure format in cui si ricorre a diete da fame e estenuanti sessioni in palestra. Oltre a questo ci sono presunti “esperti di stile” che ti dicono come devi vestirti per essere alla moda, come devi truccarti e pettinarti e persino come devi organizzare il tuo matrimonio per non rischiare di sembrare una meringa gigante e per non scontentare i tuoi ospiti. Immancabile la schiera di chirurghi plastici che qualcosa da rifarti la trovano comunque anche se hai venticinque anni e, onestamente, stai benissimo così come mamma ti ha fatta.
Mi viene in mente un film uscito qualche anno fa, “Mona Lisa Smile”, dove Julia Roberts nei panni di una moderna insegnante in un college femminile degli anni ’50 si indignava per la pubblicità che proponeva falsi luoghi comuni sulla donna e, mostrando durante la lezione una diapositiva che ritraeva un cartellone con l’immagine di una guêpière e lo slogan “questo corpetto vi renderà libere”, si rivolgeva alle giovani studentesse e urlava: “Libere? Libere da che cosa?”
Ho come l’impressione che oggi non sia cambiato granché da quegli anni dato che televisione e pubblicità cercano di convincerci che le donne, per essere felici, non possano fare a meno di certe cose. Siamo proprio sicure di avere tutto questo bisogno di personal shopper, personal stylist, personal trainer, wedding planner e via discorrendo? Non avremmo forse più bisogno di un Paese dove ci siano realmente pari opportunità di lavoro, meno precariato, stipendi più dignitosi e nessuna violenza sulle donne?
Io credo fermamente che l’uso dell’immagine della donna nel mondo della comunicazione e dei media non possa ritenersi privo di responsabilità nella discriminazione di genere. Per non parlare della pubblicità sessista o di quella televisione che riduce la donna a puro oggetto del desiderio. E non parlo del nudo in sé che non deve essere affatto censurato ma delle allusioni volgari, del modo di rappresentare un corpo, del linguaggio e del contesto culturale che riduce a una percentuale da prefisso telefonico il numero di donne parlanti in televisione.
Nel 2010 si è toccato il fondo con un cartellone pubblicitario che ritraeva una ragazza nuda prona su di un pannello solare e la scritta “montami a costo zero”. La pubblicità offensiva, sessista e di pessimo gusto di un’azienda che installa pannelli fotovoltaici era apparsa a Milazzo ma fortunatamente fu ritirata dopo le proteste di cittadini e associazioni. Credo di non aver mai visto un’immagine di donna così obiettivamente brutta e triste e spero di non incontrare mai la mente gretta che l’ha partorita, pensando di far scalpore e trarne profitto.
Le immagini sono importanti come le parole e ci condizionano forse anche di più.
Se penso all’immagine di una donna fiera penso inevitabilmente al sorriso di Monnalisa, al ritratto dell’anima, all’orgoglio della natura, alla bellezza del mistero, alla gioia di essere donna.
Forse quello di cui abbiamo bisogno è un vero cambiamento culturale, non di mettere le foglie di fico quando il danno è già stato fatto. Occorre un’inversione di tendenza, un nuovo linguaggio e una nuova educazione per una comunicazione diversa, per una televisione dove la percentuale delle donne che parla davvero e mostra volto e anima possa finalmente superare il 2 per cento e per una società dove potremo dirci davvero più liberi, tutti, donne e uomini.