C’è un modo facile di interpretare La stanza, romanzo di Jonas Karlsson pubblicato in Italia da Isbn (traduzione di Alessandro Bassini), ed è il modo di chi lo legge come la storia di un impiegato paranoico che cerca una salvezza impossibile dall’alienazione a cui è condannato. E c’è un modo più sottile, di chi invece vi intravede una parabola sulla profonda perversione di quello che l’antropologo statunitense David Graeber, in un articolo ripreso in Italia da Internazionale, ha definito il “secolo del lavoro stupido”, ossia l’epoca in cui la maggior parte delle persone impiega il proprio tempo a lavorare su compiti che non hanno alcuna utilità sociale, lavori dei quali la collettività potrebbe tranquillamente fare a meno, o che potrebbero essere svolti in minor tempo garantendo agli individui una maggiore libertà.
Personalmente preferisco la seconda lettura. La stanza in effetti è un romanzo che aggiorna l’aggettivo “kafkiano” riposizionandolo all’interno della vita da ufficio. Bjorn, il protagonista e voce narrante, scopre una stanza in perfetto ordine, pulita e ben sistemata, accanto all’open space in cui lavora. Quella stanza è l’unico punto dell’ufficio in cui riesce a ritrovare se stesso. Solo che la stanza non esiste, e quando Bjorn è convinto di trovarsi al suo interno in realtà è fermo davanti a una parete del corridoio, con gli occhi fissi al nulla, e con i colleghi che lo scrutano preoccupati per la sua sanità mentale.
Bjorn è un uomo che ha oltrepassato un limite, ma che fatica ad accorgersene, sente di avere il pieno controllo di sé, lavora per periodi di cinquantacinque minuti intervallati da pause di cinque al solo scopo di temprare il proprio carattere, si ritiene migliore degli altri, pensa che presto diventerà il capo dell’ufficio, non di rado si lancia in invettive nei confronti dei suoi colleghi (“Le persone grette non vedono il mondo per quello che è. Lo vedono soltanto come vogliono loro. Non vedono le sfumature. Le piccole cose che fanno la differenza. […] Non scoprono gli errori perché sono troppo pigri per lasciarsi scuotere dal loro tran tran quotidiano”).
Il risultato è un terribile affresco su un crollo progressivo, uno specchio sul tempo che dedichiamo alle attività vuote a cui siamo obbligati dal sistema economico e sociale in cui viviamo, sulla nostra infelicità, su quella che David Graeber definisce “una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva”.
Sono abbastanza convinto – e questa sembra anche la tesi che sottostà al racconto di Karlsson – che fra cent’anni, riguardando a quest’epoca, diranno di noi che eravamo quelli che lavoravano quaranta ore a settimana, che spendevano intere esistenze in professioni di cui verosimilmente non capivano l’effettiva ricaduta sulla società, una forma subdola di neo-schiavismo di cui addirittura ci si rallegrava, perché l’alternativa era il non-lavoro, che nel sistema dominante equivaleva alla non-vita.