Cronaca

Processo Crimine, pene confermate in appello. 500 anni di carcere a 96 imputati

Ventitrè le assoluzioni. Soddisfazione del procuratore De Raho: "Confermata l'unitarietà dell'organizzazione delle 'ndrine". Dieci anni a Domenico Oppedisano, 84 anni, considerato "capo Crimine", cioè colui che è incaricato, per saggezza e anzianità, di dirimere le questioni tra le varie 'ndrine

Anche in Appello è stata riconosciuta la natura unitaria della ‘ndrangheta. Si è concluso nel tardo pomeriggio, in aula bunker a Reggio Calabria, il processo “Crimine” che vedeva alla sbarra 124 imputati arrestati nella maxi-operazione scattata nel luglio 2010 quando i carabinieri hanno stroncato i vertici delle famiglie mafiose della provincia reggina. Un’inchiesta legata all’indagine milanese “Infinito” che ha aperto uno squarcio sugli interessi della ‘ndrangheta in Lombardia.

Complessivamente il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto dal giudice Rosalia Gaeta, ha inflitto 96 condanne e 28 assoluzioni. È stato condannato a 10 anni di carcere anche l’anziano boss Domenico Oppedisano, 84 anni, ritenuto il “Capo crimine”. Soddisfatto, al termine della lettura del dispositivo di sentenza, il procuratore Federico Cafiero De Raho secondo il quale “questo è il procedimento che ha affermato l’unitarietà della ‘ndrangheta e ha tenuto sia in primo che in secondo grado. Si tratta di un’impostazione che in passato non è stata unanimemente condivisa, ma a partire da oggi si può dire che esiste una base giurisdizionale da cui partire, per cui non possiamo che definirla un successo”. “In Appello – ha aggiunto il procuratore – mantenere pene della stessa consistenza e in qualche caso riuscire anche ad aumentarle vuol dire che esistevano reali motivi di doglianza nei confronti della sentenza di primo grado”.

Con l’inchiesta Crimine il procuratore aggiunto Gratteri e i sostituti Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò hanno svelato l’assetto della ‘ndrangheta. Certamente diverso da quello di Cosa Nostra siciliana ma ugualmente articolato. Pur mantenendo una struttura orizzontale, non ci sono più un insieme di cosche, famiglie o ‘ndrine scoordinate e scollegate tra di loro, ma un’organizzazione di “tipo mafioso, segreta, fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice”.

Il vertice è rappresentato dalla “Provincia” o “Crimine”, del quale facevano parte le famiglie mafiose dei tre mandamenti (tirrenica, jonica e Reggio Calabria città) all’interno dei quali si muovono i “locali”. Infine, c’è il quarto mandamento, quello della “Lombardia”, che raggruppa tutti i “locali” che operano nella ricca regione del Nord Italia ma che dipendono comunque dalla Calabria dove la ‘ndrangheta è nata e dove si continuano a prendere le decisioni importanti come quella di reprimere nel sangue ogni tentativo autonomista dalla “casa madre”. Proprio come è stato per l’omicidio del boss Nunzio Novella, ucciso per le sue velleità separatiste.

Ritornando a don Mico Oppedisano, l’anziano non era certamente un capo assoluto della ‘ndrangheta. Era stato nominato “capo-crimine” nel settembre del 2009, in occasione della festa di Polsi, ma non poteva prendere decisioni autonome. Piuttosto era una figura “super partes” individuata anche in base all’età e all’esperienza. A lui, in sostanza, sarebbe spettato il compito di dirimere i contrasti che potevano sorgere tra le cosche mafiose. Mantenere quell’equilibrio labile che ha portato la ‘ndrangheta ad essere l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo, leader del narcotraffico internazionale.