Ci sono quei momenti in cui mi arrabbio, caro mio. E non mi passa così facilmente. Incappo in una radio, nella rubrica telefonica e mi verrebbe la voglia di comporre quel 328eccetera, ma per noia, come si fa con le persone alle quali si vuole bene, senza dover necessariamente raccontare niente. Dimmi. Dirti cosa? Non ho nulla da dirti, accidenti. Te ne sei andato come al solito senza dire nulla, senza farmi sapere quando ci saremmo rivisti.

Con gli altri, solo quelli che ti volevano bene, ogni tanto, spesso, quasi sempre, ci raccontiamo di quella volta che sbattesti in faccia la porta a Bologna o di quando partisti per Roma senza troppa voglia, quella volta che raccontasti di quando facevi il “ballerino di tip tap” per gli americani. Nessuno poi alla fine ci ha mai creduto, ma sentirtelo raccontare con minuzia di particolari, faceva sì che fosse vero. Come tutte quelle volte che a ognuno di noi, senza perdere quel maledetto vizio di innamorarsi, ci viene in mente “io che qui sto morendo, e tu che mangi un gelato”. Tutto vero, anche d’inverno.

Ed era inverno quella sera in via Rizzoli. Dicevi che stavi organizzando la festa per il tuo compleanno e che saremmo dovuti venire in Svizzera, “tu parti con Marozzi, mi raccomando senza perdervi, magari evita che si metta quei pantaloni improbabili”. Il fatto è che stavamo per partire davvero. Poi il telefono che si riempie di chiamate. Feci finta di non capire quando mi chiamarono dalla redazione di Milano. “Scrivi tu di Lucio Dalla, vero?”. Accennai un sì: “Scrivo io”. Poi chiamai il solito Marozzi, non rispose e capii cosa volesse dire “scrivi tu di Lucio Dalla”. Ero in auto, dalle parti di Pontedera, accesi la radio e trasmettevano Anna e Marco. Feci in tempo a spegnere tutto, radio e telefonino. Un quarto d’ora, almeno per svuotare gli occhi dalle lacrime e la mente da quello che avrei scritto senza sapere da dove iniziare.

Successe di tutto in quei giorni. Vedemmo tutti insieme Bologna che piangeva come non accadeva dal 2 agosto del 1980. Ascoltai con rammarico fesserie sulla tua sessualità, come se dovesse appropriarsene l’Italia che deve ancora scindere i preti dal Partito comunista. Lo dicevi, qualche volta: “Non si superano certi traumi”. Poi ti alzavi e lasciavi lì, ospiti e piatto mezzo pieno. Nessuno ormai manco ci faceva più caso. E’ fatto così.

Si arrabbiano tutti assai. Poi ogni volta c’è qualcosa che mi trattiene dall’imprecare. Perché in realtà è accaduto come sempre, è solo la continuità temporale che cambia. E’ accaduto che ti sei alzato e te ne sei andato via, ma basta accendere quelli che una volta si chiamavano mangianastri e oggi no, basta chiudere gli occhi. Noi comuni mortali lasciamo un angolo vuoto, tu alla fine lo riempi. Perché se uno si ascolta Com’è profondo il mare, Quale allegria, Occhi di ragazza (era tua, facesti un gran regalo a Morandi), Caruso. Un rewind per ascoltarsi dall’inizio il lato A di Anidride solforosa.

Ascolto, poi capita che quell’uomo strepitoso che è David Zard tiri fuori una croce e dica, “questa me l’aveva regalata lui”. Se proprio sono allo stremo percorro il corridoio che mi separa dalla stanza del vicedirettore dove ci sono almeno un paio di foto, tu e lui, tu lui e Francesco De Gregori. Mi rimetto in pace. Attacco le cuffie e mi strapazzo il cuore con qualcosa di triste “perché l’amore o è triste o incazzato”, come avevi spiegato.

Caro amico ti ho scritto, giusto perché ne avevo voglia. Faccio in fretta perché poi viene il magone e corro su Youtube. Sono due anni dal telefono che squilla, ma quel folletto salterà da qualche parte e lo farà ancora, almeno dove io ho lasciato il cuore. Ciao, Lucio.

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