La foto ‘storica’ che ritrae le cinque ministre della Difesa alla riunione Nato (Italia, Norvegia, Albania, Germania e Olanda) è stata salutata come un evento, e lo è.

Si tratta della prima volta, in assoluto, che così tante donne ricoprono questo ruolo in Europa.

Guardo l’immagine, che le ritrae sorridenti ed eleganti, mentre si tengono a braccetto, e mi chiedo perché non provo quella gioia e quell’orgoglio che dovrei sentire.

Non ho, non abbiamo lottato in tutti i modi possibili (raccogliendo i frutti e i lasciti delle femministe più anziane) anche perché una nostra simile potesse ricoprire una carica così importante, rompendo il tetto di cristallo che bloccava le donne nell’accesso di alcuni luoghi, alcuni poteri, alcune funzioni che solo gli uomini avevano il privilegio di incarnare?

La discussione sulla necessità di praticare il principio paritario del 50 e 50 è stata difficile, irta di asperità e trappole: da una parte un teorico giusto bisogno di sanare la palese ingiustizia della finta rappresentanza, perché non c’è uguaglianza se non si può essere dovunque. Ma se questo è vero, come fare per tenere insieme il principio di quantità della parità formale con l’assoluto bisogno di qualità e di contenuti?

Grave dilemma: agli uomini non si è mai chiesto di garantire quantità e qualità, visto che erano sempre i soli a gestire il potere, (dalla famiglia al Parlamento), e più che la qualità valeva il principio di cordata e di fedeltà alla linea di una ideologia.

Le donne, non previste dalla storia plasmata, narrata e tramandata dagli uomini, in politica sono sempre state comunque ospiti, e nonostante le cariche acquisite sono facilmente depotenziabili: con l’insulto sessista o con il riporle nella ‘naturale’ dimensione sociale attraverso colorite disamine (di stampa e tv) sull’acconciatura, sull’abbigliamento, sulla fisicità: difficile che a un uomo sia riservato un trattamento così umiliante, svalorizzante e banalizzante.

Così, ora che c’è un fiorire di ministre al governo in Italia, (non quella per le Pari opportunità, forse a dire che la matematica di un governo è sufficiente) e ora che le foto ritraggono così tante donne alla Difesa possiamo dirci più forti e realizzate nell’intento di perseguire la parità e le pari opportunità? Non dovrei, non dovremmo essere soddisfatte? In quella foto c’è una mia concittadina e pressocché coetanea, Roberta Pinotti. L’ho conosciuta e intervistata nel 1997 per la rivista femminista Marea: reduce dall’abbagliante vittoria elettorale dentro al monolitico e assai maschilista ex Pci, diventata assessora in Provincia, Pinotti era ancora fresca dello spirito scoutistico che costituiva il suo robusto background, e lamentava la distanza tra il metodo della condivisione al quale era abituata con quello straniante e solitario del potere. Prometteva ascolto, relazione con le altre donne, dichiarava curiosità verso il mondo dei movimenti. Da allora deve essere successo qualcosa di straordinario, se quella stessa donna dichiarò di recente di preferire come Presidente della Commissione Difesa del Senato Sergio De Gregorio a Lidia Menapace, ottantenne partigiana e femminista nota per le sue convinte e motivate posizioni antimilitariste, pacifiste e nonviolente e rea agli occhi della ex scout di aver dichiarato la sua contrarietà alle esibizioni delle Frecce tricolori.

E mentre l’ex partigiana e fondatrice del Manifesto, appena eletta al Senato aveva già cominciato a prendere contatti con alcuni esponenti illuminati delle Forze Armate, disponibili a ragionare su riconversione del militare, dismissioni di siti per la restituzione di parte di questi alle comunità Pinotti dichiarò, (per bocca di De Gregorio, come riporta Il Fatto Quotidiano): ”Meglio che sia stato eletto De Gregorio, nonostante il suo sia stato un blitz, perché avremmo dovuto combattere con la Menapace, che ha un valore distorto della divisa e delle Forze Armate”. Sarebbe interessante capire di che valore si tratta, ma il sospetto è che non sarà facile far tornare Pinotti su questo argomento.

Peccato, perché molte donne avevano pensato che questa ex scout dall’aria pulita e ispirata dalla passione per la giustizia sociale potesse rappresentare un’occasione di cambiamento rispetto alla mentalità del potere triste e autoreferenziale che lei per prima diceva di avversare.

Solo una coincidenza: in quel numero di Marea l’intervista a Roberta Pinotti (il titolo era Il potere seduce, ma io non ci sto) seguiva un lungo articolo scritto da Lidia Menapace, dal titolo Patti tra donne.

Già, i patti: in che cosa può differire, per cominciare, il modo di usare il potere per costruire cambiamento rispetto all’esistente frusto modello patriarcale della politica? Per esempio facendo dei patti con le donne che non si vogliono uniformare al sistema, e che accettano ruoli istituzionali pubblici ma non rinnegano ideali e valori alternativi rispetto a quelli del dominio.

Quindi non si tratta di essere solo delle donne, fisicamente, perché ciò non garantisce automaticamente distanza dai valori patriarcali, non è un vaccino contro il virus dell’autoreferenzialità, dell’ambizione senza umanità, del primato del pensiero unico. Per fare la differenza bisogna essere differenti, nella testa e nel cuore, e non solo, purtroppo, nei genitali.

Qualche settimana fa un’anziana suora negli Usa ha accettato con serenità la condanna da 5 anni di carcere per avere manifestato contro una struttura militare che produce aerei da combattimento, assai simili a quelli che la nostra ministra della Difesa vuole finanziare. A parte l’età tarda, che forse potrebbe essere un ostacolo (anche se mi risulta che non lo sia per papi e Presidenti) sorriderei a vedere quella suora nella foto tra le ministre, e mi sentirei pacatamente appagata.

Forse la novità di quella foto è che oggi posso criticare una ministra della Difesa, invece che un ministro, grazie anche al contributo di attiviste come Lidia Menapace che hanno lottato perché le più giovani sedessero in Parlamento e poi diventassero titolari di dicasteri. Però non chiedetemi di essere contenta per questo.

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