Per i prossimi due mesi Alexei Navalny, avvocato e volto tra i più conosciuti dell’opposizione a Vladmir Putin, non potrà leggere gli articoli che lo riguardano. Il divieto di usare internet è una delle misure cui sarà sottoposto durante gli arresti domiciliari ordinati dal tribunale distrettuale di Basmanny a Mosca.
Secondo i giudici, il blogger di 37 anni ha violato l’obbligo di non lasciare la capitale russa, recandosi con moglie e figli nelle regioni attorno a Mosca e informando del viaggio soltanto in un secondo momento. Inoltre gli è contestato un illecito amministrativo per la partecipazione a una manifestazione non autorizzata contro la la condanna di 7 militanti dell’opposizione, costatagli a sua volta una condanna a settimana di carcere per resistenza.
Già condannato a cinque anni di carcere con la condizionale per una frode da 320mila euro ai danni di una società statale in una compravendita di legname, Navalny è coinvolto assieme al fratello Oleg in una seconda inchiesta per truffa contro Yves Rocher. Seconda l’accusa, avrebbe sottratto alla filiale russa della società francese 590mila euro, cui devono essere aggiunti altri 90mila da una seconda azienda.
“Le nuove misure vogliono bloccare la mia attività politica”, ha detto lo stesso Navalny. Di fatto il leader del fronte anti-putiniano sarà tagliato fuori dal mondo. Gli unici contatti permessi saranno quelli con i familiari, gli avvocati e gli inquirenti. Per il resto niente telefonate e nessuna intervista con la stampa. C’è poi quel divieto a connettersi che, come nota Buzzfeed, lo priva dello strumento con cui ha costruito negli anni la propria figura di oppositore, come blogger anti-corruzione. La misura, ha spiegato la sua portavoce Anna Veduta su Twitter, sarà valida sino al 28 aprile, ma come precisa Russia Today, potrebbe essere prolungata fino a metà giugno.
Con i domiciliari di Navalny sembra finita una volta per tutte la tregua olimpica e l’immagine della Russia aperta di cui si era voluto dare prova durante i Giochi invernali di Sochi, che si sono chiusi lo scorso 23 febbraio. Le Olimpiadi erano state precedute dall’amnistia che, tra gli altri, ha portato fuori dal carcere le ormai ex componenti del collettivo Pussy Riot, Maria Alyokhina e Nadia Tolokonnikova, e l’ex magnate Mikhail Khodorkovsky.
Sull’appuntamento, per il cui successo Putin si è speso in prima persona. pesavano inoltre le denunce per lo stato della tutela dei diritti umani nel Paese e per le discriminazioni contro la comunità Lgbt. Tutta propaganda anti-russa, secondo il presidente, motivata da ragioni geopolitiche e di confronto internazionale.
Chiusi i Giochi senza grossi scossoni, sono arrivate le sentenze di condanna per i manifestanti del caso Bolotnaya. Il processo prende il nome dalla piazza della capitale teatro il 6 maggio del 2012 di scontri tra manifestanti anti-governativi e polizia, durante le proteste per contestare il terzo mandato presidenziale di Putin, in quelle che sono state considerate le più imponenti manifestazioni in Russia da anni.
Sette imputati sono stati condannati a pene fino a quattro anni di carcere per l’accusa di disordini in massa e violenza. Manifestazioni a Mosca e a San Pietroburgo hanno accompagnato il verdetto, considerato la prova della repressione messa in atto dal Cremlino contro le voci critiche. Gli arresti effettuati durante le proteste di solidarietà con gli imputati sono stati almeno 500. E non sono mancati i paragoni con la situazione ucraina. Bolotnaya non è Maidan, ha sottolineato qualche commentatore, mettendo a confronto la piazza teatro per mesi delle manifestazioni che hanno portato alla fuga proprio in Russia del presidente ucraino Viktor Yanukovich e quella anti-putiniana.
Per i familiari e gli avvocati dei condannati le sentenze sono il segnale che il governo russo è intenzionato a fermare ogni possibilità che quanto avvenuto a Kiev possa ripetersi a Mosca.
di Andrea Pira