A Identità Golose come al cinema: ti folgorano a sorpresa certi film latino-americani che trasmettono una freschezza naïf, fatta di armonia e di persone, anziché personaggi.
La premessa non ovvia è che, se fai lo chef, devi avere un regista che ti fa un film (su di te, sui tuoi piatti, sui tuoi figli, sui tuoi fornitori, sul tuo paese; in mancanza d’altro va bene anche sul tuo personal trainer, ché gli chef atletici piacciono di più). Se non hai un film da presentare, ai congressi di cucina non ti si fila nessuno, e ti fanno parlare solo nelle salette piccole mentre le sale auditorium vengono riservate alle star.
Ciò detto, via ai titoli di testa.
Lui è un personaggio, ma questo, se non lo sai già, lo scoprirai solo alla fine. Si chiama Gastòn Acurio, come il cugino fortunato di Paolino Paperino. Di fortuna in effetti ne ha avuta, ma ha avuto anche coraggio. Solo che questo, all’inizio, non lo sai. Perciò lo osservi scettico, come un Gordon Ramsey di Lima, solo dotato di più poesia e savoir faire indio rispetto all’originale così poco british.
Gastòn si mette da parte e ti fa vedere un filmato. Dopo, saprai che è una serie per la tivù peruviana, tesa a valorizzare artigiani e prodotti nazionali. Lì per lì, respiri atmosfere rarefatte andine, per poi tuffarti a strapiombo in un mare di ceviche giù per le strade di Lima.
È qui che, abituato a pensar male, sospetti il gordonramseysmo, il fiuto all’erta come un pastore tedesco all’aeroporto. Certo, urge la verifica in loco; ma intanto le storie che ti sfilano davanti agli occhi, il trio di giovani cevicheros finalisti a cui il fortunato Gastòn vuole regalare una oportunitad, la chance di passare da un carretto per strada a una bottega, le immagini di agricoltori e pescatori, tutto, ogni dettaglio ti trasmette esattamente quel che promette il titolo: Il cibo da cuore a cuore che tu avevi preventivamente bollato come paraculo.
Poi scopri che Gastòn Acurio è una specie di re Mida della ristorazione, un Alain Ducasse peruviano che dove punta, apre e sbanca, che ha oltre venti ristoranti e che in vent’anni di lavoro ha insegnato ai suoi connazionali ad affrancarsi dalla servitù mentale del foie gras e a scoprire l’orgoglio delle radici e dei tuberi, esemplificati dalla panoplia di varietà di patate peruviane. E che il primo ristorante l’ha aperto vent’anni fa, senza una lira, con soldi prestati da amici, insieme alla moglie Astrid, tedesca conosciuta a Parigi, innamorata con lui e come lui della cucina.
Chapeau, Gastòn. Mentre in vent’anni c’è chi mette su un impero e basta, come Joe Bastianich che forte del reame di mammà spiega a noi italiani che non abbiamo capito niente, che la ristorazione serve solo a fare soldi, chi come Heston Blumenthal e Jamie Oliver si fa studiare il look da un team di esperti anno per anno, chi come Alain Ducasse si trasforma in imprenditore puro, c’è anche chi ti regala un finale gustoso, come Gastòn Acurio: quel cuore tanto decantato nel titolo, lo senti pulsare ancora quando scorrono i titoli di coda.