Tutto in salita l'accordo stretto tra l'ex premier e il Kuwait sull'investimento nel Fondo strategico italiano della Cassa Depositi e Prestiti
Il Fondo strategico italiano (Fsi), il fondo sovrano tricolore controllato al 77,7 per cento dalla Cassa Depositi e Prestiti, attira spesso diffidenza e sospetto, viste le performance dello Stato-imprenditore in Italia. I critici l’accusano di “distorcere” il mercato del private equity (investimenti in capitale di rischio in società non quotate). Ma di mercato da distorcere ce n’è ben poco visto che l’anno scorso le operazioni italiane hanno pesato per il 5 per cento sulla torta europea del private equity contro un peso del 18 per cento del Pil italiano sul totale europeo.
Diverso è il discorso invece per quanto riguarda la qualità degli investimenti e della strategia. Tra poco si potrà fare un primo bilancio delle operazioni fin qui condotte dall’amministratore delegato Maurizio Tamagnini, il banchiere d’affari chiamato alla guida di Fsi dopo che per oltre vent’anni si è occupato di finanza straordinaria, private equity, debito e azioni per l’americana Merrill Lynch. A inizio febbraio, infatti, nel corso del tour dei Paesi del Golfo l’allora premier Enrico Letta ha portato a casa l’impegno del governo del Kuwait, per il tramite della Kuwait Investment Authority (Kia) a investire 500 milioni di euro nelle imprese italiane. Come? L’accordo passa appunto per il Fondo strategico italiano.
Lo schema di investimento prevede che la Kia metta 500 milioni in una nuovo veicolo di investimento, di cui Fsi dovrebbe avere l’80 per cento e gli arabi il restante 20. Anche se il governo Letta l’ha venduta come cosa fatta, in realtà l’accordo è ancora in discussione e sul tavolo, ha ammesso lo stesso Fsi, ci sono “alcuni punti aperti”. Stando quanto si apprende da fonti vicine al dossier, infatti, nel nuovo veicolo, per il momento battezzato “Fsi Investimenti”, verranno conferite tutte le partecipazioni del fondo, eccetto il pacchetto del 4,5 per cento delle Generali, conferito nel dicembre 2012 dalla Banca d’Italia in cambio di una partecipazione del 20 per cento nel Fondo. Si tratta cioè delle quote in Valvitalia (pagata 151 milioni), Ansaldo Energia (657 milioni più un centinaio di milioni dal saldare nel 2017), Hera (7 milioni), Metroweb (200 milioni), Kedrion (150 milioni) e Sia (204 milioni), la quota versata in IQ Made in Italy (150 milioni), per un prezzo di carico complessivo di 1,67 miliardi. A fronte della liquidità apportata, Kia dovrebbe ricevere una quota di Fsi Investimenti preliminarmente indicata al 20 per cento, ma la cui entità definitiva dipenderà dal valore riconosciuto al portafoglio al termine della due diligence (verifica dei conti) in corso sugli investimenti. Vista la fama di negoziatori duri degli arabi, se tutto andrà per il verso giusto, Tamagnini segnerà un punto importante a favore di Fsi.
Già da ora, comunque, il Fondo strategico italiano sta provando ad accelerare il flusso di investimenti diretti esteri in Italia. Nel quinquennio 2007-2012 i flussi netti di capitali esteri in Italia sono stati pari a 12 miliardi di dollari annui contro i 66 miliardi della Gran Bretagna e i 37 della Spagna. Grazie alla natura di fondo sovrano, per Fsi trovare intese con gli omologhi di altri paesi è più agevole. Negli ultimi 15 mesi sono stati messi a segno tre colpi. Il primo è la joint venture (la IQ Made in Italy) da un miliardo di euro a testa con la Qatar Holding, portata a casa da Tamagnini durante gli ultimi mesi del governo Monti, per investire in moda e lusso, arredamento, turismo e distribuzione alimentare. Più di recente, è stato invece siglato un accordo di co-investimento con il fondo governativo russo Rdif da 1 miliardo di euro per sostenere i piani di sviluppo di imprese italiane in Russia e viceversa, oltre all’intesa in via di finalizzazione con Kia. Soldi che vanno ad aggiungersi ai 4,4 miliardi già raccolti dal Fondo rispetto un obiettivo di 7 miliardi.
Nato tre anni fa sull’onda della retorica nazionalista nei giorni della scalata dei francese della Lactalis alla Parmalat, il Fondo strategico italiano si è sviluppato seguendo in realtà una linea parzialmente diversa rispetto a quanto immaginato allora. Non un baluardo per la difesa dell’italianità, ma un catalizzatore di investimenti, anche esteri. Un bacino potenziale di 740 aziende attive in settori “di rilevante interesse nazionale” (difesa, infrastrutture, trasporti, IT, Telecom, utility, energia e finanza) o, anche al di fuori di questi settori, ma con un fatturato annuo netto intorno ai 300 milioni e almeno 250 dipendenti.
Lusso e turismo sono poi altri due punti di riferimento nella strategia di Fsi, ma non è stato concluso nulla, nemmeno con la IQ Made in Italy, anche se resta l’ambizione di costruire un polo italiano del lusso e quella di coinvolgere una catena alberghiera internazionale in un progetto italiano. Un capitolo a parte è quello delle reti, già presidiato dalla controllante Cdp, azionista di riferimento di Terna e Snam. Fsi è occupata finora solo di utility: ha acquisito una piccola quota in Hera, ma riuscire a mettere insieme le municipalizzate è impresa ardua. Con la partecipazione del 46,2 per cento in Metroweb (reti in fibra ottica), il Fondo strategico potrebbe essere il pivot per lo sviluppo della banda larga e lo scorporo della rete di Telecom. Un argomento, questo, sui cui dentro al Fondo strategico italiano sono cauti, per il rischio che la politica faccia pressioni per dare una mano all’indebitata Telecom. Su questo dossier, che aleggia da tempo senza mai essere formalmente sul tavolo, Fsi e Tamagnini si giocano la loro credibilità. In patria e all’estero.
Di Roberto Genuardi
Da il Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2014