Una colonna di fumo e polveri così imponente da offuscare l’illuminazione del capannone. Ecco il reparto acciaieria dell’Ilva di Taranto pochi giorni fa: la foto pervenuta alla redazione de ilfattoquotidiano.it mostra lo “spillaggio”, l’operazione di scarico dell’acciaio liquido a 1600 gradi centigradi, dalla siviera alla linea di colata continua. Ma soprattutto, la foto evidenzia chiaramente la presenza di un operaio a pochissimi metri da quella nube che invade il capannone e che i sistemi di captazione non riescono ad aspirare. I fumi e le polveri, così, raggiungono il tetto e poi si diffondono nel resto della struttura raggiungendo i lavoratori.
Immagini emblematiche dello stato in cui ancora sono costretti a lavorare i dipendenti dell’Ilva. Abbiamo chiesto all’azienda spiegazioni, ma non abbiamo ricevuto risposta. Avremmo voluto conoscere quali sono le azioni messe in campo per ridurre questo fenomeno, con quale frequenza si manifesta nelle acciaierie e quali sono i rischi per i lavoratori esposti a questi fumi. Domande, al momento, a cui l’azienda ha preferito non rispondere.
A poche ore dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio della procura di Taranto, quindi, è lecito chiedersi a che punto è il risanamento dello stabilimento di Taranto. Il commissario straordinario Enrico Bondi, pochi giorni fa, ha pubblicato la relazione trimestrale sull’andamento dell’azienda che descrive la crescita di quasi il 2 percento delle vendite tra ottobre 2013 e gennaio 2014 e anche un quadro di miglioramento delle emissioni nell’aria di Taranto. La relazione, inoltre, evidenzia i passi avanti fatti nell’opera di ambientalizzazione degli impianti senza tuttavia fare cenno ai tempi previsti dall’autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’azienda dal ministro Corrado Clini nell’ottobre 2012. Forse perché l’Ilva è nettamente in ritardo rispetto al cronoprogramma stabilito dal ministero attraverso i vari decreti “salva Ilva”. Basti pensare al fatto che lo stesso commissario non ha ancora varato il piano industriale. Mancanze che, ovviamente, si traducono in costanti rischi per la salute di operai e cittadini. Pericoli che, seppure ridotti rispetto agli anni precedenti, non sono ancora azzerati.
Il fenomeno mostrato dalla fotografia, inoltre, è stato denunciato più volte in passato anche dai custodi giudiziari e dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce. I documenti firmati dall’ingegner Barbara Valenzano e dal maggior Nicola Candido, sono puntualmente giunti sulla scrivania della procura della Repubblica a cui spetta il compito di valutare se l’azienda può continuare a operare in queste condizioni o se gli impianti devono tornare sotto sequestro. Il rischio, infatti, non è affatto scongiurato. È stato lo stesso gip Patrizia Todisco, con un’ordinanza firmata a novembre dello scorso anno, a spiegare che se l’Ilva non rispetta in tempi stretti le prescrizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale, la facoltà d’uso può essere revocata e quindi gli impianti dell’area a caldo possono tornare sotto sequestro. Un monito lanciato dal magistrato che ha sottolineato che “allo stato, non risulta ancora intervenuta l’approvazione del piano industriale” e, invece, sono ancora “rilevanti” le “accertate violazioni delle prescrizioni in materia di tutela ambientale e sanitaria”.
Non solo. “Le attività condotte dalla Societa Ilva spa – si legge nel provvedimento – risultano in notevole ritardo rispetto ai tempi prescritti dal provvedimento di riesame Aia 2012” e che quindi “sussistono le pratiche operative di gestione del processi che hanno fin’oggi determinato le violazioni delle norme”. Quelle stesse pratiche, in sostanza, che hanno causato anche le colonne di fumi e polveri mostrate dalla fotografia pubblicata oggi dal Fatto e hanno portato al fermo degli impianti il 26 luglio 2012. Ancora il magistrato ha chiarito che alla base della riduzione dei livelli di inquinamento dev’essere collegato “lo spegnimento di alcuni impianti quali, l’altoforno 1, le batterie 3-4, 5-6, 7-8, e la fermata dell’altoforno 2 e dell’acciaieria 1”.
Ma soprattutto il gip, nel suo documento, ha evidenziato come la stessa Corte Costituzionale abbia definito legittima la legge “salva Ilva” e quindi equiparato diritto alla vita e diritto al lavoro per “la temporaneità delle misure adottate”. Cioè se l’azienda non riesce a rispettare i tempi, la facoltà d’uso può essere revocata, con una richiesta dei pm, sulla base di dati oggettivi. Le segnalazioni, come questa pubblicata dal sito del Fatto, del resto, continuano a pervenire quasi quotidianamente agli inquirenti e il tempo per il rispetto delle prescrizioni Aia trascorre inesorabilmente.