Cinema

La Grande Bellezza, ecco perché ha vinto l’Oscar e chi erano i quattro rivali

Gli americani hanno pensato che il film sia una specie di nuova Dolce vita. Nella pellicola ci sono poi degli elementi sicuramente vincenti: l’estrosità e l’estetica delle ambientazioni e dei costumi, la bellissima colonna sonora. Infine il coraggio dello stile immaginifico di Sorrentino che per certi versi ricorda l’estro di Federico Fellini

di Roberto Faenza

A Los Angeles in questi giorni ho incontrato molti amici attori, produttori e registi, dunque ho potuto verificare che La Grande Bellezza ha veramente suscitato molta attrazione, anche se va detto che l’attenzione degli americani è ovviamente più per il loro cinema e meno per il miglior film straniero. Infatti è una commissione ristretta quella dell’Academy che vota per le pellicole non di lingua inglese, quasi non interessassero tutti i membri della prestigiosa istituzione. Il che secondo me suona come una scelta un po’ “razzista” e senza senso. Ma veniamo al dunque: cosa è veramente piaciuto del film di Sorrentino? Per capirlo può essere utile vedere intanto cosa non è piaciuto dei suoi concorrenti, tutt’altro che poco temibili. In queste ore tutti parlano ovviamente di chi ha vinto, ma se vogliamo comprendere perché dobbiamo confrontarci anche con chi ha perso.

I quattro rivali da battere provenivano da Belgio, Danimarca, Cambogia e Palestina. A onore del vero va detto che quest’ultimo partiva già appesantito proprio dal paese di origine: la Palestina, “uno Stato che non esiste”, come mi ha detto un critico americano di origine israeliana, bollandolo subito come incandidabile. Il film del Belgio, The Broken Circle Breakdown vede al centro della trama la lotta di due genitori per salvare la piccola figlia gravemente ammalata. Tema già troppo trattato dal cinema made in Usa e quindi poco appetibile per i votanti dell’Academy. Più insidiosa la presenza del danese The Hunt, firmato da Thomas Vinterberg e presentato con successo al Festival di Cannes 2012, vincendo il premio per la miglior interpretazione maschile con l’ottimo Mads Mikkelsen. La trama vede uno stimato maestro di scuola che viene accusato di molestie sessuali dalla figlia di un amico. Si troverà solo a lottare contro l’infamante accusa, che si rivelerà poi del tutto infondata. Anche questo tema non è nuovo per il cinema americano, di qui la bocciatura.

Terzo avversario: The Missing Picture, presentato dalla Cambogia. Anche questa pellicola è stata presentata al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Firmato da Rithy Panh è in realtà un documentario che ripercorre i momenti in cui nel 1975 i Khmer Rossi entrano a Phnom Penh e impongono la dittatura del socialismo reale. Trattato con poesia e delicatezza può non avere interessato più di tanto i giurati, soprattutto per non essere un film bensì un documentario e inoltre forse per non avere espresso un giudizio abbastanza duro sugli eccidi comunisti. Omar, il film della Palestina, era secondo molti il concorrente più temibile. Pluripremiato a Cannes e osannato anche al Festival di Toronto, il film affronta il tema dell’amore e del tradimento sullo sfondo del dissidio israelo-palestinese. Girato come un film neorealista avrebbe potuto vincere. L’ha certamente danneggiato l’essere presentato appunto da uno Stato inesistente, soprattutto agli occhi dei molti giurati americani ebrei, la cui parola Palestina è vissuta con terrore.

Ed eccoci a La Grande Bellezza. Le cose piaciute di più oltreoceano sono quelle che forse sono piaciute di meno a noi italiani. Intanto l’idea che il ritratto di Roma sia proprio quello, mentre sappiamo benissimo che la nostra Capitale è ben diversa da come appare nel film. Sicuramente più sciatta, più disarticolata, più allo sbando per come l’ha lasciata Alemanno al povero Marino. Ho appena sentito per radio la voce di Sorrentino, che intelligentemente precisa come non abbia voluto presentare una Roma in chiave realistica, bensì trasfigurata dalla immaginazione sua e del suo sceneggiatore, l’abile Contarello.

Gli americani, che dell’Italia conservano un’idea sempre un po’ stereotipata, hanno pensato (anche perché così gli è stato raccontato) che il film sia una specie di nuova Dolce vita. Dunque gli è piaciuto ancora di più. Nella pellicola ci sono poi degli elementi sicuramente vincenti, specie in terra straniera. Intanto l’estrosità e l’estetica delle ambientazioni e dei costumi, in cui la cura del regista e dei vari reparti danno il meglio, soprattutto agli occhi degli americani. Basti pensare all’invenzione delle giacche rosse e gialle indossate con nonchalance da Tony Servillo, una sfida temeraria allo stile compassato di Armani. Come pure la bellissima colonna sonora, un mix di sacro antico e di profano, che gli americani ci invidiano, non avendo loro né l’uno né l’altro. Infine il coraggio dello stile immaginifico di Sorrentino che per certi versi ricorda l’estro di Federico Fellini. Il maestro romagnolo è rimasto nel cuore degli americani e l’idea che ci sia un suo emulo non poteva non essere premiata.

Dal Fatto Quotidiano del 4 marzo 2014

Modificato da redazione web ore 15.52

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