Siamo tutti diversi. Non come diceva Kennedy, quando con slancio geniale – ma retorico – proclamava: siamo tutti berlinesi. Siamo davvero tutti diversi. Non c’è normalità con cui misurarsi. Uguale è solo la dignità che dobbiamo riservare a ogni esistenza. Eppure, scrivendo queste parole, pur con la massima convinzione, avvertiamo il rischio dell’ipocrisia. Nel numero di questa settimana raccontiamo dell’omosessualità. Della difficoltà di dichiararla a se stessi, poi ai propri cari, agli amici. Stiamo faticosamente anche in Italia arrivando ad accettarla pubblicamente. È solo il primo passo. Poi devono venire il rispetto e l’autentica comprensione. Ma quanti di noi, incluso chi scrive, saprebbero essere coerenti con le proprie parole, scoprendo di essere omosessuali o trovandosi davanti un figlio, un fratello, un amico che dopo un lungo travaglio dichiara di essere gay? Pochi.
Abbiamo peccato contro gli omosessuali: spinti da religioni, moralismi, paure inconsce, intolleranza. E da ultimo, forse, paradossalmente per sostenere chi era emarginato. Abbiamo voluto credere che ogni comportamento fosse indifferente. Così non si superano le discriminazioni, le si nascondono. Non è la stessa cosa essere omosessuali o eterosessuali. Come non è uguale vivere soli o con un partner, amare una sola persona o nessuna o tante. Mentiremmo se tacessimo che l’omosessualità può essere fonte di dolore, proprio perché deve affrontare intolleranza e incomprensione. Perché due persone dello stesso sesso devono rinunciare a un figlio concepito insieme. E però bisogna anche dire che il dolore e le difficoltà possono rendere più forte e autentico un legame. Più di quanto non accada talvolta a coppie eterosessuali che di quello slancio, di quel coraggio non hanno avuto necessità.
No, dire che ogni scelta è indifferente non attribuisce a tutto uguale valore. Piuttosto lo nega.
Ma forse è la prospettiva che dovremmo cambiare. Omosessuali, eterosessuali. Anche se pronunciamo queste parole in modo asettico, l’accento cade sul sesso. Che è parte straordinaria della nostra vita, ma non unica né prevalente. Chi scrive in questo momento si trova in una stanza affacciata su uno sterminato condominio della periferia di Londra. Davanti centinaia di finestre. Ecco un anziano e la moglie seduti alla stessa tavola. Poi un ragazzo e una ragazza che si vestono per uscire. Infine due uomini seduti abbracciati, illuminati dalla luce violetta di una tv.
Destini diversi, impossibile dire se ve ne sia uno giusto. Da questa stanza dall’altra parte della strada non si può capire quale cura, comprensione, slancio ognuno abbia per la persona che ha deciso di stargli accanto. O, come diceva Shakespeare, di “regalargli la propria vita”.
Il Fatto Quotidiano, Lunedì 3 febbraio 2014