La prima domanda a cui il nuovo presidente del consiglio, Matteo Renzi, dovrà dare una risposta è se ci sarà una tassa patrimoniale. La seconda è di che tipo sarà, perché la scelta può essere molto diversa. In apparenza la risposta dovrebbe essere un no secco, perché il segretario del Pd continua a predicare che è arrivato il momento dello sviluppo per rimettere in moto il Paese. Ma non è così facile perché per fare le riforme e tagliare il debito pubblico ormai alle stelle (nel 2013 ha raggiunto il 132,6% del Pil, il livello più alto dal 1990) occorrono soldi. Tanti soldi. E non è chiaro dove andarli a prendere. Per questo la tentazione di acchiapparli nel modo più facile, cioè dalle tasche del ceto medio, è la strada più facile.
Di sicuro l’ipotesi di una patrimoniale è sempre più concreta dopo che la Commissione Ue ha deciso di retrocedere l’Italia, perché “le riforme annunciate sono insufficienti a ridurre l’indebitamento”. Ma le pressioni per mettere mano ai capitali privati degli italiani arrivano da tutti i fronti. Questa strada piace sicuramente ai falchi della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, nonché ad alcuni banchieri più e meno noti. Ma trova consensi anche in quella parte della sinistra contenta che “anche i ricchi piangano”, secondo uno slogan elettorale che, per la verità, non ha portato molta fortuna a chi lo ha coniato. Così, anche se dalla destra Angelino Alfano e Silvio Berlusconi restano fermamente schierati contro, l’arrivo di una tassa sul patrimonio è sempre più probabile.
Il pressing più insistente resta quello proveniente dalla Germania. Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, riferendosi implicitamente all’Italia ha suggerito a febbraio che “prima di chiedere aiuti agli altri e alla banca centrale”, in un Paese minacciato dall’insolvenza si potrebbero tassare i patrimoni una tantum, anche perché in più di un caso “gli Stati sovraindebitati sono quelli che detengono un alto patrimonio privato”.
Il concetto era stato esposto dalla stessa Banca centrale tedesca poche settimane prima. “In caso di bancarotta i Paesi europei devono prendere in considerazione l’imposizione di un prelievo una tantum sui capitali nazionali piuttosto che chiedere aiuti all’estero”, aveva proposto nel bollettino mensile. Un’operazione che non porterebbe “rischi significativi”, ma anzi difenderebbe il principio della responsabilità nazionale e permetterebbe una gestione più ordinata di eventuali casi di insolvenza. Una proposta simile era arrivata nell’autunno del 2013 anche dal Fondo monetario internazionale, che aveva chiesto una patrimoniale del 10% una tantum sulle famiglie per abbattere il debito pubblico dei Paesi dell’Eurozona, Italia compresa. “E’ una misura eccezionale per ripristinare la sostenibilità del debito dopo il brusco deterioramento delle finanze pubbliche di molti Paesi”, aveva scritto l’organizzazione di Washington in un report pubblicato a ottobre.
Fra i primi a sollevare lo spettro della patrimoniale in Germania era stato, nell’estate del 2012, il Diw, uno dei più influenti istituti tedeschi di ricerca economica, che aveva proposto prestiti forzati, o in alternativa una tassa sulla ricchezza. Berlino aveva subito bollato l’idea come ”interessante”, ma non da applicare in Germania. E gli stessi promotori del modello si erano mostrati subito d’accordo, chiarendo che “proprio per i Paesi in crisi uno strumento del genere sarebbe una opzione sensata per coinvolgere nel rifinaziamento degli Stati i patrimoni esistenti, che fra l’altro sono spesso molto concentrati'”.
Interessante è capire cosa ne pensa il nuovo ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan. “Le imposte che danneggiano di meno la crescita sono quelle sulla proprietà, come l’Imu, mentre le tasse che, se abbassate, favoriscono di più la ripresa e l’occupazione sono quelle sul lavoro”, per questo la priorità è “ridurre il carico fiscale sul lavoro”, ha affermato l’estate scorsa in qualità di capo economista dell’Ocse. La citazione di Padoan è significativa perché apre il dibattito su cosa s’intende per patrimoniale. Una imposta secca sulla ricchezza genericamente posseduta da valutare considerando il totale rappresentato da immobili, liquidità sui conti correnti, titoli di Stato e risparmio gestito? Oppure qualche intervento più specifico?
Il neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, appena insediato ha annunciato che il governo valuterà un “aumento delle tasse sulle rendite finanziarie”, in particolare sui Bot, che “al momento non sono in linea con la tassazione europea” (i titoli di Stato in portafoglio a sottoscrittori retail vengono infatti tassati al 12,5%, contro una media europea del 25 per cento). Dichiarazioni a cui era seguita una rapida ma confusa smentita da palazzo Chigi. Renzi ha poi confermato che “c’è spazio per aumentare la tassazione delle rendite finanziarie“, ma ha precisato che il provvedimento riguarderà “le rendite pure e non i Bot”.
Il governo sembra quindi avere le idee ancora confuse a riguardo, ma l’ipotesi di aumentare le tasse sulle rendite finanziarie è sul tavolo da tempo. Il 17 febbraio scorso, proprio nei giorni in cui Enrico Letta lasciava Palazzo Chigi, il finanziere Davide Serra – supporter e consigliere di Renzi – ha dichiarato che “è necessario alzare la tassazione sulle rendite finanziarie”, perché “è inaccettabile che un Paese tassi al 20% le rendite finanziarie mentre il lavoro è tassato al 45% e le imprese al 60 per cento”. E anche Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, interpellato sul programma del governo Renzi, ha detto che “stiamo ragionando sul fatto di uniformare”, con un innalzamento, “la tassazione sulle rendite finanziarie“.
In questo caso si tratterebbe di un intervento sulle rendite finanziarie e non di una patrimoniale a tutto campo. Ma sarebbero compresi i titoli di Stato oppure no? E’ chiaro che escluderli non avrebbe giustificazione logica. Ma è altrettanto evidente che comprenderli potrebbe creare problemi in una materia delicata perché i titoli di Stato servono, per l’appunto, a finanziare lo Stato e buona parte di loro sono posseduti dagli italiani che, ad un certo punto, potrebbero decidere d’investirli diversamente. E allora la loro tassazione potrebbe risultare il classico autogoal.
Una patrimoniale ben diversa, e cioè a tutto campo, è quella nei pensieri di Fabrizio Barca, ministro per la coesione territoriale del governo Monti, che tra l’altro era uno dei candidati al ministero dell’Economia nel governo Renzi, particolarmente sostenuto da Carlo de Benedetti, come lui stesso ha confermando cadendo in uno scherzo telefonico organizzato da La Zanzara. “Se io dico che voglio fare una patrimoniale da 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta, tu cosa rispondi?”, ha detto parlando a un finto Nichi Vendola.
Ma la tentazione di mettere mano ai risparmi degli italiani riguarda anche qualche banchiere e qualche ex banchiere. Corrado Passera, in passato amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, aveva infatti proposto una tassa patrimoniale del 2% su tutta la ricchezza immobiliare esclusa la prima casa, i depositi bancari e i titoli di Stato con un incasso stimato a 85 miliardi di euro nel Grande Piano di Rilancio che aveva preparato per Giorgio Napolitano durante l’estate del 2011, mentre il capo dello Stato stava sondando Mario Monti per l’incarico di premier. Passera ora ha cambiato idea perché ritiene prioritario lo sviluppo rispetto a una nuova, clamorosa stretta fiscale.
Più recentemente invece, alla fine del 2013, l’ex banchiere Pietro Modiano, attualmente presidente di Nomisma e ai vertici della società aeroportuale Sea, ha consigliato di applicare un prelievo una tantum del 10% sulla fascia più ricca della popolazione. Proposte simili sono arrivate dai sindacalisti Susanna Camusso, leader della Cgil, e da Maurizio Landini, ma anche dal magistrato Francesco Greco, procuratore aggiunto di Milano, secondo cui serve una patrimoniale, ma soltanto “per chi ha portato i soldi all’estero”.