Il caso Sorgenia è la punta dell’iceberg di un sistema energetico senza un progetto di sviluppo che dia il giusto spazio a fonti rinnovabili e tradizionali. Equilibrio da ritrovare tra tutela dell’ambiente, salvaguardia dei consumatori e investimenti.
Di Carlo Scarpa (Fonte: Lavoce.info)
La storia di Sorgenia
La storia di Sorgenia non è che la punta di un iceberg che da tempo naviga nelle acque del nostro sistema energetico. E, come sappiamo, con gli iceberg è facile farsi molto male…
La storia è semplice. A metà dello scorso decennio, Sorgenia ha portato a compimento una serie di investimenti in impianti di generazione “tradizionali”, ovvero centrali a gas, installando quattro centrali moderne e relativamente efficienti. Purtroppo per Sorgenia, allo stesso tempo in Italia si stava compiendo anche la rivoluzione delle rinnovabili, insieme a una netta discesa del prezzo del carbone. Questo è rilevante perché se le rinnovabili (solare o eolico) producono, hanno la precedenza sull’elettricità prodotta dalle centrali tradizionali. E, tra queste ultime, le poche (ma significative) centrali a carbone sono oggi meno costose di quelle a gas.
Il risultato di tutto questo è che centrali programmate per funzionare oltre cinquemila ore l’anno producono talvolta meno della metà di quanto potrebbero. E spesso non basta a far quadrare i conti. Che tutto ciò sarebbe un giorno avvenuto era evidente da tempo, e fu infatti affrontato da una legge del 2003, la legge Marzano, che prevedeva i cosiddetti capacity payment. Si tratta di una remunerazione che le imprese ricevono (a spese dei consumatori: non è denaro dello Stato, ma comunque sempre dalle nostre tasche proviene) non in ragione di quanto producono, ma per il fatto che la loro capacità produttiva è comunque a disposizione. (1)
Intendiamoci. Lo sviluppo delle rinnovabili non ha reso inutili le centrali tradizionali. Se il vento cade o il cielo si oscura troppo, eolico e fotovoltaico non bastano più, e avere centrali tradizionali a riserva, pronte a entrare in funzione, è necessario per consentirci di tenere accesa la luce. I capacity payment hanno senso. Il problema è quanto ha senso spendere per questa partita.
Manca un piano complessivo
Finora i capacity payment non sono costati tantissimo. Tuttavia, la legge in vigore prevedeva l’entrata in funzione dal 2017 di un sistema molto più oneroso per i consumatori, la cui attuazione, però, è stata ritardata diverse volte, tra l’altro perché appariva troppo costosa. Stime di pochi mesi fa parlavano di un sistema che dal 2017 sarebbe potuto costare ai consumatori circa un miliardo di euro all’anno. Quando già paghiamo oltre otto miliardi per la sola energia solare, un simile esborso sarebbe sostenibile per le nostre famiglie e le nostre imprese? Qualcuno lo dubita.
Il problema di Sorgenia è simile a quello di altre imprese, private o a controllo pubblico locale. Peggiore solo perché gli investimenti sono più recenti e meno ammortizzati e l’onere finanziario da coprire maggiore.
Una legge apposita per Sorgenia non è neppure concepibile. E comunque, ripeto, questa è la punta dell’iceberg.
Il nuovo sistema elettrico che stiamo costruendo per il paese prevede una base molto elevata di energia da fonti rinnovabili, ma non vedo come possa non essere affiancata da una base di centrali tradizionali. Carbone o gas? Se in Europa ci fosse una politica ambientale coerente, il carbone sarebbe probabilmente fuori gioco; resta invece “economico” solo perché il sistema europeo di pagamento per le emissioni di gas serra prevede ancora prezzi bassi per chi inquina. E forse il sistema di remunerazione della capacità “a riserva” dovrebbe essere disegnato anche in modo da dare coerenza a un sistema che, come troppo spesso avviene, si sta sviluppando senza un piano complessivo, senza una vera visione di lungo periodo.
Un’altra considerazione, che temo non piacerà a nessuna delle imprese oggi coinvolte dal problema di impianti sotto-utilizzati, è che non possiamo pensare di pagare le stesse imprese due volte. Oggi, gli impianti rinnovabili gravano pesantemente sulle tasche dei consumatori (2) e lo stesso forse avverrà presto per le centrali a gas, spiazzate proprio dall’esplosione delle rinnovabili. La stessa impresa può pensare di essere sussidiata per le centrali rinnovabili da un lato e per quelle tradizionali – spiazzate dalle rinnovabili – dall’altro? Mi parrebbe una pretesa un po’ eccessiva.
Ma urge ridare coerenza all’intero sistema. Non per salvare un’impresa, che purtroppo ha forse ecceduto in esuberanza nei suoi investimenti passati, ma per ritrovare un equilibrio tra esigenze dell’ambiente, tutela dei consumatori, incentivo a investire. Non sarà facile, e non sarà senza costi. Ma è sistema che è rimasto senza timone per troppo tempo, e non ce lo possiamo permettere.
(1) Cosa sono i capacity payments? In un sistema elettrico c’è sempre eccesso di capacità di generazione: alcuni impianti si attivano solamente nelle fasi di picco, quando la domanda è elevata, e quindi remunerano l’investimento funzionando “poche” ore ma percependo un prezzo molto elevato. Se non si vuole che il prezzo all’ingrosso dell’energia salga a livelli troppo elevati, si fissa un tetto a questo prezzo, il che impedisce di remunerare gli impianti nelle fasi di picco, e si distribuisce invece a tutti i produttori (non solo a quelli che si attivano nelle fasi di picco) un pagamento a compensazione del prezzo calmierato. In questo modo i bilanci dei generatori rimangono in equilibrio e il prezzo non sale troppo nelle fasi di picco.
(2) Togliere gli incentivi elargiti in passato alle rinnovabili è molto difficile, perché i benefici sono stati incassati da una pluralità di soggetti ( per esempio, chi aveva un terreno e ha venduto il diritto di costruzione o chi ha sviluppato un progetto e poi l’ha ceduto). In altri termini, molto spesso l’attuale titolare è quello col cerino in mano, ma i soldi li hanno già incassati altri che hanno gestito le fasi precedenti di costruzione dell’impianto. E poi c’è il principio giuridico del legittimo affidamento: se hai investito fidandoti delle leggi in vigore, non è di norma consentito “espropriarti” a posteriori… Ma sulla possibilità di applicare questo principio in questo caso il dibattito è aperto…
Carlo Scarpa
Nato a Parma nel 1961, è professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Brescia, dove ha tenuto corsi di Economia politica, Economia industriale e Politica della concorrenza. Si è laureato a Parma, e ha conseguito il Dottorato di ricerca all’Università di Bologna e il D.Phil. in Economia al Nuffield College, Oxford University. Ha insegnato e svolto attività di ricerca presso le Università di Oxford, Bologna, Cambridge, Evry, York, la Johns Hopkins University, l’Università Bocconi, il Boston College, la London Business School e l’Ecole Normale Superieure di Parigi. Ha svolto attività di consulenza presso la Banca d’Italia, la Consob, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e per varie imprese private. E’ stato coordinatore scientifico generale di diversi progetti finanziati dalla Commissione Europea su temi di privatizzazione e di energia (tra gli ultimi “Understanding Privatisation Policies” e “Security of Energy Considering its Uncertainty, Risk and Economic implications”, in collaborazione con la Fondazione Mattei di Milano). Si occupa di problemi di economia e politica industriale, con particolare riferimento a temi di antitrust e alla regolazione di servizi di pubblica utilità, soprattutto nei settori dell’energia e dei trasporti.