Torneremo a vivere in un continente che – come mezzo secolo fa – era metà sotto il tallone degli Usa e metà sotto quello dell’Unione Sovietica? Saranno ancora le armi ospitate sul suo territorio a segnare il ruolo subalterno dell’Europa tra i contendenti? La tragedia ucraina è presentata in termini geopolitici non convincenti: l’Ucraina aderirà alla “democratica” Unione Europea o manterrà legami con il “dispotico” impero russo?
È vero che i confini della moderna Ucraina contengono una crepa Est-Ovest, che è linguistica, religiosa, economica e culturale. Ma finora la frattura non sembrava comportare irreparabili minacce di guerra. Ben più decisiva sembrerebbe la determinazione dell’economia e della finanza che dominano il mondo nello sfruttare fino allo sfinimento le fonti energetiche fossili che superano in enormi condotte grandi distese o giacciono sotto quelle grandi pianure, in spregio alla realtà del cambiamento climatico e in insostenibile alternativa al sistema diffuso delle fonti rinnovabili, là pressoché sconosciute.
Victoria Nuland, vice Segretario di Stato per gli affari europei – un superstite della cricca neoconservatrice che circondava George W. Bush – catturata da una telecamera nascosta mentre bisbigliava: “che gli Europei si fottano!”, parla esplicitamente di una lotta tra Europa e Stati Uniti, terrorizzati – questi ultimi – da un’alleanza geopolitica tra Germania, Francia e Russia all’interno della transizione energetica in corso.
La verità è che l’Europa attuale ha abdicato di fronte alla politica finanziaria ed energetica delle corporation multinazionali e alla geopolitica militare che punta all’annessione dell’Ucraina alla Nato: il modello dell’Est è fatto di carbone, gasdotti e giacimenti fossili da controllare con l’esibizione degli eserciti, mentre il controllo del clima è subordinato alla competizione nel mercato.
Il fattore “scatenante” dei roghi di piazza e dell’entrata dei blindati russi in Crimea potrebbe essere individuato nello shale gas, o meglio nelle grandi risorse di gas ucraine estraibili con la tecnica del fracking, con la conseguente concorrenza alle condotte che portano gas convenzionale dalla Russia interna ed estrema.
La possibile eppur trascurata spiegazione dell’intreccio economico che sta dietro la guerra civile di Kiev e l’invasione della Crimea, viene addirittura da una fonte insospettabile come il think thank Conservative Home, che si definisce “la casa del conservatorismo”. Harry Phibbs – il principale columnist del web di Conservative Home – ricorda che “lo scorso novembre ci fu un accordo di coproduzione da 10 miliardi dollari per il gas da scisto, firmato dall’Ucraina con la Chevron, che faceva seguito ad un precedente, simile accordo con la Royal Dutch Shell”. E aggiunge che “l’Ucraina è uno dei campi di battaglia per la rivoluzione dello shale gas, dato che finora l’Occidente per le sue forniture di petrolio e gas tradizionali è stato fortemente dipendente da un instabile Medio Oriente e da una Russia inaffidabile”.
Questo serve anche a spiegare il rumoroso silenzio sulla vicenda ucraina del fedele amico di Putin, Silvio Berlusconi, e di buona parte del gotha energetico italiano che con Putin e con la sua oligarchia autoritaria dello Stato-mercato energetico russo fa e ha fatto affari d’oro, pur non ritraendosi dall’avventura del gas non tradizionale, finora avversata dall’Ue.
Da tempo l’Ucraina punta a diventare, da problematico Paese di transito del gas russo, un Paese produttore di shale gas, sostenuto dalla Global Shale Gas Initiative promossa dagli Stati Uniti per fornire supporto tecnologico e know how attraverso il coinvolgimento delle proprie compagnie energetiche.
A riguardo, l’Italia non sta con le mani in mano. Scaroni, amministratore delegato del gruppo Eni in odore di riconferma col governo Renzi, il 27 novembre 2013 ricordava, a margine della presentazione dell’opera della Madonna di Raffaello a Palazzo Marino, di avere 9 blocchi esplorativi per il gas non convenzionale nelle regioni vicine alla Crimea (Lliv).
Insomma: lo sfruttamento del gas non convenzionale da parte di Usa, ex satelliti sovietici e Cina potrebbe privare Mosca del suo ruolo di fornitore energetico dominante, togliendo al Cremlino una formidabile arma economica e geopolitica.
La partita tuttavia è apertissima, perché il diffondersi su scala globale di una shale gas revolution appare complicato da una serie di fattori economici e tecnologici, nonché dal suo devastante impatto ambientale.
Ma dovrebbe colpirci come questo acutissimo conflitto avvenga tutto all’interno delle vecchie fonti – gas, petrolio e, di riflesso, carbone – su cui si sostiene un modello che ha un presente di guerra, ma non ha un futuro né sul piano della soluzione della crisi ambientale e economica, né sul versante dell’occupazione e della democrazia. Ecco perché, quando è più evidente il richiamo delle armi, è tanto più urgente andare alle radici delle motivazioni per la loro entrata in campo. E la soluzione di una energia rinnovabile, decentrata, governata e conservata democraticamente sul territorio diventa a questo punto ineliminabile.