Violenza in casa, a lavoro, in pubblico, online, ieri alla conferenza dell’agenzia per i diritti a Bruxelles la presidenza del semestre greco ha presentato i risultati della prima rilevazione statistica europea fatta nei 28 paesi sulla violenza sulle donne, e Fondazione Pangea c’è. Il fenomeno e problema sociale che si stima colpisce almeno 62 milioni di cittadine europee tra i 17 e i 74 anni e costa in europa una cifra intorno ai 223 miliardi di euro.
I dati sono purtroppo allarmanti, una donna su tre in Europa ha subito una qualche forma di violenza, fisica, sessuale, psicologica, economica, stalking e il terreno si è esteso anche nel mondo online sopratutto tra le giovani che ricevono anche prima dei 17 anni minacce e intimidazioni. “I dati sulla violenza sono fondamentali, una persona spesso vive più tipi di violenza contemporaneamente, per questo il fenomeno va affrontato nella sua complessità all’interno di un quadro generale di riferimento standard che attraverso dati uguali per tutti permetta di costruire una strategia politica comune ai 28 paesi dell’Unione europea. I dati di questa rilevazione confermano quanto sia necessario agire velocemente e in maniera concordata. Mi auguro che si proseguirà su questa strada anche a livello di amministrazioni nazionali, per continuare a monitorare il fenomeno”, afferma Maura Misiti, ricercatrice del CNR-IRPS e autrice di Ferite a morte, presente alla conferenza con me. Un altro dato sconcertante è che le donne di ogni età non denunciano abbastanza. Le ipotesi di tale reticenza sono diverse, per paura, per sfiducia verso le istituzioni (ovvero verso la polizia, i giudici e i tempi dei processi, i servizi sociali..), per mancanza di un’ autonomia economica che potrebbe permettere loro di liberarsi e allontanarsi da situazioni di violenza domestica, per mancata percezione che quello che loro accade è violenza e può essere fermata perché esistono leggi e lo Stato dovrebbe essere dalla loro parte.
Ma la questione vera non è solo che le donne non denunciano, perché la rimozione di questo problema è collettiva, delle donne come degli uomini di ogni età. Lo dimostra l’assuefazione di tutti noi alle pubblicità sessiste che contengono stereotipi negativi dei ruoli che le donne come gli uomini dovrebbero ricoprire, per giungere al fatto che ci interessa molto di più sapere che tipo di linguaggio sessista e offese si sono fatti i politici tra di loro piuttosto di sapere cosa stanno facendo per meritarsi di ricoprire certe cariche. E così ci si abitua, è come il fumo passivo, si respira senza rendersene conto, e si cresce dentro in immaginario in cui la violenza è parte della vita quotidiana e non si riconosce quando la stiamo subendo.
La cosa peggiore è che si trasmette senza volere alle nuove generazioni: immagini, comportamenti, linguaggi, sino ai testi obsoleti dei libri scolastici. Eppure dare un esempio diverso di uomini e donne restituirebbe futuro a tutti. Così il vecchio continente europeo che pensa di essere il paladino dei diritti umani e dei processi democratici scivola sulla questione della violenza sulle donne. Il dato di una donna su tre in 28 paesi europei ci mette davanti ad un serissimo problema sociale che lede lo sviluppo della nostra società perché estremamente radicato. Non si tratta solo di una lesione dei diritti umani ma di una mancanza di democrazia nel riconoscere quello che sono uomini e donne davanti agli Stati e davanti all’Europa, ovvero cittadini con gli stessi diritti di cittadinanza. Non siamo in Afghanistan dove la legge viene fatta in casa, non siamo in India, luogo da cui arrivano storie agghiaccianti, siamo in Europa, e la violenza sulle donne di ogni età esiste ugualmente anche se abbiamo molte più leggi a disposizione, abbiamo elettricità 24 ore su 24, acqua corrente a disposizione, lavatrici, automobili, frigoriferi in ogni casa, e pensiamo che la parità è raggiunta perché c’è il divorzio e si può uscire al cinema la sera con le amiche o gli amici.
Ciononostante ci sono buone notizie, l’Unione Europea ha avviato il processo di ratifica della Convenzione di Istanbul, e a breve lo farà anche la Francia. Mancano poche ratifiche all’entrata in vigore obbligatoria della Convenzione di Istanbul e sarebbe magnifico se ciò accadesse durante la presidenza italiana del semestre europeo. Ciò forse aiuterebbe a far tornare questo importantissimo tema sui tavoli della politica italiana affinché venga affrontato seriamente visto che ad oggi nel nuovo governo italiano non c’è neanche stata una nomina alle pari opportunità. Di conseguenza è sospeso o annullato il lavoro della task force per riscrivere il piano di azione nazionale per contrastare e prevenire la violenza sulle donne che, per la prima volta, anche se in maniera marginale, aveva coinvolto nei tavoli tecnici alcune organizzazioni nazionali della società civile, tra cui Pangea, che lavorano sul tema.
Che fare? Aspettare le istituzioni per aspettare un cambiamento? La storia ci insegna che le istituzioni intervengono principalmente quando le persone comuni sono già a metà se non quasi alla fine dell’opera. Sicuramente oltre all’intervento dei policy maker c’è bisogno che i cittadini, uomini e donne, si assumano la responsabilità della propria cittadinanza e cambino la loro attitudine, i loro comportamenti, la loro percezione e atteggiamento scettico nei confronti della violenza. C’è bisogno che la violenza sulle donne venga riconosciuta e che venga prima di tutto contrastata nel vivere quotidiano di ognuno di noi. Solo così le varie leggi, politiche e attività relative alla prevenzione e al contrasto potranno prendere forma e diventare realtà al punto da far diminuire quei fatidici numeri che le statistiche sulla violenza riportano e che a volte determinano orrendi omicidi-feminicidi, non numeri ma vite che nessuno Stato può permettersi di perdere. Noi di Pangea ci siamo.