Ministra, la ministra, le ministre. Ringraziando Paolo Hutter per avere affrontato così bene la questione, non si può che concordare: non c’è nulla di poco lirico nella parola ministra. Ed è liricamente piacevole anche la parola avvocata. Consigliabile, poi, a chi tanto si scoccia per questa riflessione sul genere della lingua, la storia di Paola Di Nicola, “la” giudice.
Sono anni che si lavora sulla questione.
A chi si infastidisce che siano soltanto le donne a proporre la discussione, segnaliamo l’ottima prova offerta dall’ex direttore dell’Ansa e docente alla Luiss, Sergio Lepri, in un articolo apparso sul sito di Giulia, associazione di giornaliste.
Davvero non si capisce perché operaia, infermiera, cuoca, commessa, parrucchiera, cameriera, cassiera vadano bene e siano usati anche dai riottosi finti snob (“ci sono ben altre cose di cui occuparsi”), mentre ministra o prefetta o chirurga facciano arricciare il naso (purtroppo, anche a moltissime donne). Operaia si è sempre detto? Ebbene, ministra si dirà. La lingua cambia con la storia.
Prima, ministra non si diceva perché non c’erano ministre. Adesso ci sono (e dovrebbero anche darsi una mossa per non farsi definire al maschile).
Non tirate in ballo le regole della lingua, per favore. L’Accademia della Crusca ha detto, dimostrando tutta la sua lirica modernità, che il vocabolario si modifica e ha stabilito una regola sul genere grammaticale femminile di ruoli istituzionali e professioni. In particolare, ha indicato che negli atti amministrativi, e in riferimento a una persona precisa, vada usata la forma femminile: perciò, tutti gli atti di governo dovrebbero dire “la ministra Boschi“, “la ministra Madia“, etc. La regola andrebbe studiata a scuola, e soprattutto dovrebbero studiarsela i direttori dei giornali.
Con il genere della lingua, va a braccetto il genere della toponomastica. Proviamo a pensare quante strade, piazze, vicoli e vicoletti portano il nome di figure femminili celebri o significative per la storia della nostra comunità, nazionale o locale. Poche, pochissime. Chi avesse voglia di sfogliarsi le statistiche dettagliate, provincia per provincia, non ha che da collegarsi qui, apprezzando il lavoro svolto dal gruppo “Toponomastica femminile”. Persino calcolando le sante, le beate e le Madonne, le percentuali sono a netto vantaggio delle intitolazioni al maschile. Ma Rita Atria, Francesca Morvillo, Margherita Hack e centinaia di altre donne magari meno famose ma ugualmente degne di diventare parte della memoria collettiva (ad esempio, le Costituenti) possono benissimo sostituire l’ennesima via Roma.
A proposito della capitale, chi volesse scoprire qualcuna delle figure femminili che hanno contribuito alla resistenza romana, può fare una corsa ad Albano Laziale nel cui Museo Civico, fino al 9 marzo, è allestita una mostra fotografica intitolata alle strade che portano il nome di queste donne.